La ‘Messa da Requiem’, quando Verdi si rivolse a Dio con lo sguardo di chi non crede
Il 22 maggio 1874 nella Chiesa di San Marco a Milano Giuseppe Verdi dirigeva per la prima volta la sua Messa da Requiem, donata alla città per commemorare, un anno dopo, la morte di Manzoni. Stasera, dopo 150 anni, nello stesso luogo, Riccardo Chailly guiderà la “sua” orchestra della Scala per una serata che si annuncia unica. Un Requiem, quello di Verdi, pieno di dubbi e di speranza: una messa anche per il nostro tempo.
Da quando, all’inizio dell’Ottocento, la musica si libera dal vincolo della committenza divenendo il luogo eletto della soggettività del compositore, l’indagine musicale si interseca con quella biografica. Così Verdi dopo il grande successo di Aida non aveva intenzione nell’immediato di comporre altre opere. Sono anni di riflessione: revisionerà il Boccanegra nell’81 e Don Carlo nell’84, ma per Otello occorrerà attendere il 1887. La vena non era esaurita, ma l’uomo invecchiava e il compositore maturava: non era certamente più quello degli anni di galera, ma neppure l’uomo che compose Aida. Il percorso delle sue revisioni è la cartina di tornasole di un uomo “indurito dalle sozzure di questo mondo”, cui però restava “ancora un po’ di cuore”. Quanto basta per essere ancora capace di piangere: “Non lo dite a nessuno – scriveva a Clara Maffei nel maggio del 1873 – ma qualche volta piango”.
In questo contesto, sull’onda emotiva della morte di Manzoni, nasce la Messa da Requiem. È la riflessione di un uomo schivo, temprato dalla vita, sempre più infastidito dallo strepitare intorno. Una riflessione che si rivolge a Dio ed alla morte con lo sguardo smarrito di chi non crede e, al contempo, con quel malinconico disincanto che sarà poi la cifra di Falstaff. Ne nasce un affresco pieno di timore, invocazione, venato di una timida speranza, cui si giustappone l’invocazione del Salmo 30, quell’in te Domine speravi che, molti anni dopo, chiuderà il Te Deum.
La fede è sicura speranza di salvezza: ma se in Manzoni la notte dell’Innominato si chiude con un’alba di conversione, in Verdi il dubbio continua a convivere con la speranza sino alla fine. Non c’è spazio per la sicurezza, c’è piuttosto angoscia, assenza, c’è buio. In questo Requiem più che altrove si legge il rovello dell’uomo. Non c’è, qui, il Dio di Manzoni. Nella narrativa musicale verdiana la Provvidenza che turba la gioia dei suoi figli non è preordinata a prepararne loro una più certa e più grande. Manca insomma quella sicurezza incrollabile tipica delle grandi cattedrali sonore di Palestrina o di Cherubini. Siamo lontanissimi da partiture capaci di affermare, come in Beethoven o in Bruckner. Questo Requiem ci interroga, sospinge alla ricerca della fede, non la afferma. È forse questo il lascito più grande: quando la musica nutre il dubbio, allora ha raggiunto il suo obiettivo. E per noi, figli di un tempo debole, dubbio e speranza sono compagni di cammino sempre più rari.
Ecco, ascoltando stasera in San Marco questo Requiem, proviamo a scorgere nell’invocazione sussurrata del salva me, nel sillabato del libera me Domine, nello spegnersi finale degli archi (un morendo in Do maggiore con ben quatto p: qualcosa più di pianissimissimo, insomma) lo specchio di questo nostro mondo al crepuscolo. Cerchiamo, seppure distratti da una quotidianità berciante, di udire il sussurro di una umanità intimorita, sempre più chiusa nelle proprie solitudini. Proviamo ad ascoltare la preghiera zoppa figlia di questo tempo incerto. Cerchiamo, ascoltando questa Messa da Requiem, di portare a casa un po’ di dubbi e un po’ di speranza. Manca, è vero, la sicura speranza. Ci resta la speranza.
*L’autore è il sottosegretario all’Economia
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