Yara Gambirasio e la scrittura della realtà

Non sono un appassionato di crime ma mi interessa nel profondo la realtà.Ho passato molte giornate sui tram, negli uffici pubblici, in coda con registratore o taccuino, a cercare di carpire di quali storie parlano le persone e soprattutto come, con quali precise parole, con che costruzione. Avendo poi iniziato a scrivere piuttosto giovane ho scoperto presto che la realtà non la si rappresenta semplicemente imprimendola su un supporto audiovisivo né stenografandola su carta.

Quando per dieci anni ho scritto la sketchcom Cameracafé – di cui sono stato autore dal primo episodio fino al passaggio in Rai, escluso – ricordo che ero sempre in carenza di idee. Non trovavo un plot. Ero disperato. Allora andavo a pranzo, cena, aperitivo, qualunque cosa con vecchi amici, compagni di scuola, ma anche semi-sconosciuti, a chiedere: “Ma da te in ufficio cosa succede? Di cosa parlate? Quali sono le questioni?” La risposta era sempre: “Se vieni davanti alla nostra macchinetta del caffè, in mezz’ora scrivi dieci episodi, Carlo. Vedrai che storie pazzesche!”

Ci sono andato molte volte a trovarli nei loro luoghi di lavoro senza mai portarmi a casa assolutamente nulla. Perché una storia parte da lontano, si costruisce nel tempo, fonda regole durante il suo svolgersi, cambia significato anche solo grazie a uno sguardo.Allora tornavo dall’amico a dire: “Adesso tu mi spieghi quali sono i temi cruciali lì nel tuo ufficio; per cosa litigate?; quali sono le vostre speranze?; quali i conflitti?; quali le relazioni?” Da queste risposte ricevevo un mondo, un avvenimento preciso accaduto, una storia da ricostruire. Solo ora potevo partire a scrivere, inventare, far diventare questo intrigo di uno, un fatto narrabile a molti, una storia possibilmente universale e memorabile.

Ma questa è la fiction. La realtà vera che sei costretto a maneggiare in una docuserie è tutta un’altra questione, ma tocca comunque passare dall’ossessione di un caso, alla drammaturgia di quello stesso caso, o meglio di quel pezzo di memoria collettiva; questo è il mio lavoro. Una docuserie fatta come si deve non è mai il solo fattaccio riassunto, è uno sguardo allo stesso tempo più profondo e più aereo: più profondo perché scava nei personaggi e chiede loro come questa storia abbia modificato il loro percorso; più aereo perché si allarga ben al di là della vittima e dell’assassino, come seguendo i cerchi che si formano nello stagno in cui hai gettato un sasso di proposito.Tocca passare da materiale di archivio, faldoni, sentenze, giornali, dichiarazioni, atti del processo, avvocati, ipotesi personali, tutto il possibile e qualcosa in più; tocca prendere nota e porsi e porre centinaia di domande; solo infine tocca scrivere e far sì che il viaggio dello spettatore sia fruibile e comprensibile senza selezione all’ingresso.

Non basta tanto materiale ben organizzato. Di solito porto sempre quest’esempio che mi è balzato agli occhi nel padiglione in cui mi somministrarono il vaccino anti-covid. Stavo scrivendo il libro Una storia comune su Sanpa e da lì prendo queste righe:“C’è chi chatta, chi videochiama, chi si scatta selfie, chi video per Instagram, chi fotografa il padiglione da lontano, chi intervista, all’ingresso c’erano pure le telecamere di qualche televisione coi giornalisti. Quanta produzione di materiale, penso. Prima o poi qualcuno la dovrà fare una docuserie sul Covid-19. Immagina quanto materiale potrebbe esserci, fra testimoni, televisioni di tutto il mondo, miliardi di telefonini in mano ad altrettanti cameraman di fortuna ma capillarmente dislocati in ogni angolo del pianeta.

Difficile pensare a una storia più comune di quel 2021 in cui tutti gli umani si misero in fila per farsi iniettare un farmaco salvavita contro un virus. Senza dubbio si potrebbero recuperare milioni di video solo di testimoni diretti che dicono cosa sia stata per loro questa pandemia e come l’hanno affrontata, mentre la affrontano. Quando mai è capitato nella storia di avere così tanto audiovisivo a commento di un singolo evento? Sono anni e anni di visione del solo “archivio” a disposizione. Sarà un lavoro infernale. Qualcuno dovrà scegliere. La sola giustapposizione di informazioni e fatti avvenuti, anche se in video, aiuta la documentazione; ma non sono la storia. E soprattutto, senza sintesi, punto di vista, drammaturgia, diviene un materiale non processabile per un essere umano.

“Una docuserie non è un lungo servizio del tg e nemmeno un documentario spezzato in più parti o puntate, è un genere a sé. Una docuserie crime nasce da un caso specifico che ovviamente viene scandagliato, spiegato e raccontato per filo e per segno, ma contiene molto di più perché indaga assieme ai protagonisti anche gli effetti collaterali e soprattutto narra la storia della comunità interessata in quel periodo storico, rimette in scena la memoria comune.Lo è stato per Sanpa, in cui è evidente che non si parlasse solo di Muccioli, eroina e San Patrignano. Lo è anche per il caso Yara, costellato di elementi collaterali più ampi: la paura atavica della scomparsa di una minore, che sia figlia, sorellina, amica del cuore; la ricerca spasmodica di un intero Paese che cerca una ragazzina ponendosi domande su se stesso; l’assedio mediatico e come esso può cambiare tutto; il difficile passaggio dall’indagine vecchia maniera sul campo a farsi venire i piedi piatti, all’indagine quasi esclusivamente tecnologica fatta di laboratori e scienza che non possono sbagliare; la differenza fra essere giornalisti locali o nazionali, perché i primi conoscono o incontrano al supermercato i parenti delle vittime e quelli degli assassini o presunti tali; le indagini che possono mandare in pezzi famiglie e relazioni; il carcere e la complessa macchina della giustizia, i costi per difendersi.

Ma solo per elencarne alcuni, poi lascio la parola al viaggio in cinque episodi de Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio su Netflix, che essendo una docuserie sa sintetizzare ed evocare, senza mai tralasciare la complessità, molto meglio delle mie parole scritte.Ecco perché è certo che una docuserie la si scrive, ma soprattutto la si continua a riscrivere. Decine di volte. Dall’inizio. Perché si aggiunge materiale, si aggiunge l’idea degli audio, si aggiunge un testimone, rivedi delle immagini che avevi già visionato e hai la sensazione che ti stiano dicendo cose diverse, nuove, più urgenti; perché salta un’intervista o ti viene negata, perché capisci che un dettaglio l’avevi capito sbagliato tu, perché c’è bisogno di sedimentazione e tempo affinché il cuore della narrazione si mostri. Non devi mai dare nulla per scontato, devi sentirti a tuo agio nel collaborare con l’incertezza, devi accettare di convivere coi dubbi, devi farti catalizzatore di storie altrui così da renderle di tutti.

Carlo Gabardini, dopo aver scritto SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano ha scritto ora la docuserie Il caso Yara:oltre ogni ragionevole dubbio (insieme a Gianluca Neri ed Elena Grillone).

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