Max Gazzè torna alle radici: “Tra pizzica, taranta e saltarello porto l’etno folk nel mio pop”
“Il progetto Musicae loci, musiche dei luoghi, è nato due anni fa: volevo sperimentare la commistione di più sonorità, quelle delle orchestre popolari emesse da liuti, violini e zampogne, innestate su brani rock. Ci siamo divertiti a sostituire gli arrangiamenti pop con quelli delle grandi orchestre, da quella popolare del saltarello (abruzzese) a quella calabrese e ancora fino liscio romagnolo”.
Parola di Max Gazzè, che dopo aver girato a lungo l’Italia con queste e altre bande musicali (ad esempio quella della pizzica e della taranta) rileggendo il suo rock d’autore, ora mette in scena il gran finale di partita, La lunga notte di musicae loci, in cartellone venerdì 6 all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Un percorso che – tra le tante magie della musica – punta su quella di tramandare la storia e la memoria dei luoghi, proprio con i suoni etno folk della tradizione popolare.
Come si è snodato esattamente il progetto?
“Abbiamo suonato lo stesso brano in versione liscio come in stile saltarello calabro e via dicendo. Quando la veste cambia, tutto prende un colore diverso. E’ stato molto suggestivo l’uso di questi strumenti, un po’ l’altra faccia della musica di oggi, tutta digitale e sequencer. In queste occasioni non c’erano neanche metronomi e click. Anche perché oltre all’armonia, un brano si fa sentire anche per l’andamento, il suo movimento ritmico, che magari può essere ternario, binario, eccetera…”.
Quali tra le sue canzoni le sono piaciute di più nella versione popolare
“Faremo Sotto casa, La vita com’è, Mentre dormi, Una musica può fare e molti altri… Mi piacciano tutti ovviamente! Ho fatto le selezione con Dedo, con lui ho scelto quali brani fare il 6, tra quelli suonati in questi due anni di esperienza con questi musicisti incredibili di grande competenza. Sono artisti pazzeschi e ci sono tante voci sublimi”.
Un suo bilancio personale a trent’anni e più da quando suonava sulla pedana del Locale di vicolo del Fico, periodo che ha accompagnato il suo debutto discografico?
“Passare dalla pedana del Locale al grande palco del Circo Massimo è stato un lungo percorso. Il nostro comune inizio, è stato quel piccolo club a vicolo del Fico. Dove oltre agli attori, ai musicisti, agli artisti, c’era anche qualcuno che quel club lo ha raccontato. Altrimenti sarebbe stato come l’albero che cade senza fare rumore, insomma nessuno se ne accorge”.
Quanto e come hai sviluppato questa consapevolezza?
“E’ un approccio che si è sviluppato nel tempo, grazie anche alla lettura di storie zen, che a volte hanno anche una certa ironia, ma in realtà lo scopo è di farti riflettere. A volte i maestri zen ti rispondono: ‘Non ho niente da insegnarti’. Il senso di tutto questo è che ogni cosa è quella che è, tutto è giusto e niente è sbagliato. A esempio queste storie raccontano come in natura gli alberi hanno rami lunghi e rami corti… Quindi avere cinque figli come ho io, ma anche averne nessuno come tanta gente è giusto. Mi sono sempre domandato come sarebbe stata la mia vita senza figli, però è una domanda poco profonda: tutto ciò che accade fa parte di un unico equilibrio. Ogni esistenza procede e si sviluppa a modo suo. Certo questi ragionamenti non valgono quando devi pagare l’affitto. E – in realtà – in non molti altri casi. Questo approccio non è una propriamente questione di saggezza, il punto è che bisogna ‘non resistere’ a ciò che cambia. Infatti a volte il voler risolvere compulsivamente un problema, non funziona. Anzi può sortire un effetto contrario”.
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