Che fine ha fatto l’accordo Ocse per far pagare più tasse alle multinazionali?

Nota a cura di Gianmaria Olmastroni

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Nel 2021 i governi di 147 Paesi, col coordinamento dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), hanno firmato una dichiarazione per migliorare la tassazione delle multinazionali. Il primo pilastro dell’accordo sposterebbe parte dei profitti tassabili dal Paese dove l’impresa ha sede legale a quelli dove si realizzano le vendite. Ma questo pilastro necessita di un trattato internazionale, si applica a poche imprese e la parte dei profitti riallocati sarebbe modesta. Il secondo pilastro, che imporrebbe una tassazione minima del 15% alle multinazionali con almeno 750 milioni di fatturato, non necessita di un trattato internazionale perché verrebbe implementato attraverso le norme dei singoli Stati. Molti Paesi, tra cui quasi tutti quelli dell’Unione europea (compresi Olanda, Lussemburgo e Irlanda che sono stati in passato criticati per sottotassare le multinazionali) hanno implementato questo pilastro. Secondo l’OCSE, se tutti i Paesi firmatari della dichiarazione implementassero questo pilastro il gettito dalla tassazione delle multinazionali aumenterebbe fino a circa 200 miliardi (un aumento dell’8%, un importo comunque non enorme). Tuttavia, Cina e Stati Uniti, pur avendo firmato la dichiarazione, non hanno fatto progressi nella sua implementazione, riducendo significativamente l’efficacia della riforma.

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A ottobre 2021 i governi di 147 Paesi, col coordinamento dell’OCSE, hanno firmato una dichiarazione dove concordano una “soluzione in due pilastri per affrontare le sfide fiscali derivanti dalla digitalizzazione dell’economia”. Nonostante il riferimento alla “digitalizzazione”, l’accordo riguarda tutte le multinazionali di certe dimensioni.Il primo pilastro è volto a distribuire in maniera più equa il gettito delle tasse pagate dalle multinazionali, allocandolo maggiormente nei Paesi dove si svolge effettivamente l’attività delle imprese coinvolte. Il secondo è volto ad aumentare il gettito, imponendo una tassa minima globale del 15%. Entrambi i pilastri frenerebbero il fenomeno della concorrenza fiscale tra Stati per attrarre le multinazionali.

Il contenuto dell’accordo

L’obiettivo del primo pilastro è di contrastare la tendenza a spostare artificialmente i profitti (attraverso varie procedure contabili) delle grandi multinazionali (quelle con fatturato superiore ai 20 miliardi) verso i Paesi a tassazione più bassa. A questo fine, una quota dei profitti (il 25% della parte che eccede il 10% del fatturato) verrebbe spostata dal Paese dove si ha sede legale l’impresa a quello dove avvengono le vendite. Per esempio, per un’impresa con un fatturato di 40 miliardi e profitti di 8, la parte dei profitti che verrebbe riallocata sarebbe di 1 miliardo (il 25% dei 4 miliardi di eccesso dei profitti rispetto alla soglia del 10%). I profitti riallocati sarebbero poi soggetti alle singole aliquote nazionali, con accorgimenti per evitare la doppia tassazione. L’attuazione di questo pilastro comporterebbe l’abolizione delle imposte introdotte da molti Stati, tra cui l’Italia, per tassare le multinazionali digitali indipendentemente dalla localizzazione della loro sede legale. Le imprese coinvolte dovrebbero sviluppare un metodo per identificare i consumatori finali basato su criteri indicati dall’OCSE. Si tratterebbe, in ogni caso, di una riallocazione molto limitata rispetto, per esempio, a quello che avviene in alcuni Stati federali, come gli Stati Uniti d’America, per la riallocazione tra componenti della federazione della base imponibile per la tassazione delle imprese. Il secondo pilastro mira a garantire che le imprese multinazionali con più di 750 milioni di euro di fatturato siano soggette a un’aliquota minima effettiva del 15% a prescindere dal luogo della sede legale (quand’anche questa fosse in Paesi non firmatari dell’accordo).

Questo avverrebbe attraverso tre regole. La prima (la cosiddetta “Qualifying Domestic Minimum Top-Up Tax”) è un’aliquota integrativa domestica: per esempio, se una multinazionale operante in uno Stato aderente all’accordo paga il 12%, allora deve corrispondere un 3% aggiuntivo. In pratica per tutti i Paesi aderenti l’aliquota effettiva diventerebbe del 15%.La seconda regola (la cosiddetta “Income Inclusion Rule”) prevede che, qualora l’impresa abbia una sede in uno Stato non aderente all’accordo e quindi non operi la prima regola, l’aliquota integrativa sia imposta dal Paese dove ha sede la capogruppo. Per esempio, un’impresa italiana che ha una sede in un paradiso fiscale dove paga il 10%, dovrà corrispondere il 5% aggiuntivo all’Italia.La terza regola (la cosiddetta “Under Taxed Payments Rule”) entra in gioco se anche la capogruppo si trova in uno Stato non aderente all’accordo: l’aliquota integrativa viene imposta e ripartita tra gli Stati dove l’impresa opera in base alle immobilizzazioni tangibili e al numero di dipendenti. Grazie a quest’ultima regola l’accordo funzionerebbe globalmente anche senza l’adesione di tutti gli Stati del mondo, tranne per le multinazionali che hanno la sede legale e operano solo in Paesi non aderenti.

L’applicazione di questa terza regola affronterebbe però difficoltà pratiche e politiche non indifferenti se lo Stato non aderente fosse un grande Paese, non disposto a veder tassate le proprie imprese da altri Stati. In ogni caso resterebbero escluse le multinazionali che operano solo in Paesi non partecipanti all’accordo.Se tutti i 147 Paesi firmatari della dichiarazione OCSE implementassero il secondo pilastro, l’aumento di gettito fiscale già un anno dopo la sua applicazione sarebbe compreso tra i 155 e i 192 miliardi, ossia tra il 6,5 e l’8,1% del gettito in assenza di riforma.

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L’implementazione

L’implementazione del primo pilastro sta affrontando grandi difficoltà. Per definire e attuare in pratica questo pilastro, è necessario un trattato internazionale. Inoltre diversi aspetti del meccanismo non erano definiti nell’accordo preliminare del 2021. L’OCSE ha pubblicato una proposta di trattato aperta a modifiche nell’ottobre 2023: la scadenza del 30 giugno 2024 per la versione definitiva è stata superata senza rilevanti sviluppi ulteriori. L’intesa è quindi ancora lontana. Fra l’altro, per entrare in vigore e diventare vincolante per i Paesi aderenti, il trattato dovrebbe essere ratificato da almeno 30 Stati, che rappresentino almeno il 60% delle imprese coinvolte. Visto che il 53% delle imprese potenzialmente coinvolte ha sede negli Stati Uniti, la ratifica americana è di fatto necessaria per l’attuazione del trattato.

Mentre i Paesi europei sembrano favorevoli alla riforma, l’adesione americana appare improbabile. La maggioranza di due terzi del Congresso necessaria per ratificare trattati internazionali richiede un consenso bipartisan, uno scenario lontano, viste le posizioni opposte di Repubblicani e Democratici in ambito fiscale e la rielezione di Trump.Il secondo pilastro ha fatto qualche passo avanti. In questo caso, non è necessario un trattato internazionale, ma l’adozione delle regole da parte dei parlamenti nazionali. In base a una direttiva dell’Unione europea, gli Stati membri sono tenuti a rendere efficaci la seconda regola nel 2024 e la terza nel 2025. La prima è opzionale: tuttavia, tutti i Paesi che hanno recepito la direttiva l’hanno adottata comunque, con efficacia dal 2024. Tra questi anche i tre Paesi (Olanda, Lussemburgo e Irlanda) che sono stati in passato criticati per una sottotassazione delle multinazionali.

Dal 2025, le norme saranno in vigore in 20 dei 27 Stati membri. A questi si aggiungeranno a breve Spagna, Cipro e Lituania, dove le leggi sono in fase di approvazione. Restano fuori Estonia, Lettonia, Malta e Slovacchia, ai quali l’UE ha consentito di conformarsi in ritardo. In generale, dal 2025 in 36 Stati sarà in vigore la prima regola: oltre a quelli UE, si segnalano paradisi fiscali quali le Barbados, l’Isola di Man e l’Isola di Jersey. In altri 11, tra cui le Bahamas, le Mauritius e il Qatar, il processo di adozione è in corso. Sempre nel prossimo anno, 40 Paesi applicheranno o prevedono di applicare la seconda regola. Inoltre, 32 di questi Stati hanno adottato o prevedono di adottare anche la terza.Restano però seri problemi per Cina e Stati Uniti, dove hanno sede gran parte delle multinazionali. La loro mancata adesione comporterebbe la necessità di utilizzare la terza regola sopra citata, quella di più complessa realizzazione e che comunque non copre i profitti di multinazionali con sede e operazioni al di fuori dei Paesi che implementano l’accordo.

Quella contro l’evasione fiscale globale è una battaglia da combattere

Gli Stati Uniti avevano promosso l’accordo OCSE all’inizio dell’amministrazione Biden, con il diretto coinvolgimento della Segretaria al Tesoro Yellen, ma è mancata una maggioranza in Congresso per far passare la necessaria legislazione. In questo Paese è già in vigore un’imposta del 10,5% sui profitti esteri delle multinazionali americane, ma l’aliquota dovrebbe essere alzata e il meccanismo di attribuzione dei profitti esteri modificato. È stata promulgata nel 2022 una “aliquota minima alternativa” del 15% sull’utile delle imprese, tuttavia questa non solo si applica soltanto alle multinazionali con profitti superiori a un miliardo di dollari, ma richiede un regolamento attuativo non ancora finalizzato.

L’elezione di Trump pone seri dubbi sull’implementazione delle regole OCSE negli USA, visti i tagli alle tasse per le grandi imprese promessi in campagna elettorale. Fra l’altro, già a maggio 2023 un senatore repubblicano aveva presentato una proposta di legge per abrogare l’aliquota minima alternativa.La Cina ha aderito all’accordo OCSE, ma non ha fatto progressi sulla sua implementazione. La normativa fiscale cinese permette facilmente alle multinazionali di spostare la residenza in altri Stati ed essere soggette a tassazione agevolata, sacrificando il gettito in favore della competitività delle imprese. Delle 86 multinazionali cinesi più grandi, 78 pagano le tasse alle Isole Cayman. Considerando che anche queste ultime non hanno recepito l’accordo, queste imprese sfuggirebbero alla tassa minima globale, perlomeno per il loro operato nel territorio cinese.

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