Erri De Luca: “In questa età inoltrata sono un principiante che continua a imparare”

Aderire alla parete di una roccia sentendone il variare della pelle – più umida o più asciutta a seconda del vento – sembra nascere dallo stesso sapere fisico, dalla stessa sensibilità prensile ed esatta con cui Erri De Luca aderisce al corpo delle parole, sfiorandone stratificazioni di sensi depositate dal tempo, mettendo le dita su appigli toccati da generazioni precedenti.

Ospite al Palazzo del Governatore per l’incontro di chiusura della rassegna Altri racconti, lo scrittore, in dialogo con Adriano Cappellini, rettore del convitto Maria Luigia, ha presentato il suo ultimo libro – L’età sperimentale (Feltrinelli), steso con l’amica Ines de la Fressange, in cui racconta del suo inoltrarsi come un esploratore nella vecchiaia di un corpo che è “macchina antica e misteriosa”, “animale preistorico messo alla prova e selezionato da diecimila generazioni”, come dice De Luca protagonista e autore dei testi del bellissimo docu-film diretto da Marco Zingaretti, proiettato in apertura dell’incontro.

“In questa età inoltrata sono un principiante che continua a imparare. Anche nella scrittura, ad ogni nuovo libro resto un principiante. L’unica esperienza che ho è quella di una certa intimità con il vocabolario italiano. Intimità che mi è stata data non dalla scrittura ma dalla lettura. Si diventa proprietari della propria lingua a forza di leggere mentre i clienti del linguaggio sono quelli che, non avendo esperienze di lettura, prendono le definizioni ufficiali per buone e non muovono nessuna obiezione di vocabolario nei confronti delle falsificazioni. La differenza tra chi legge e chi non legge è simile alla differenza, in una rissa, tra chi è sobrio e chi è ubriaco: chi legge è sobrio, più preciso e più veloce. Chi non legge, è ubriaco e le busca”.

Riprendendo una filastrocca dell’Appennino bolognese in cui la vita di tre cavalli equivale alla lunghezza della vita di un uomo, lo scrittore riflette sulla natura che corrisponde al ritmo delle età e va al galoppo, in gioventù, al trotto da adulti e al passo sul dorso dell’età terza, l’età sperimentale, la vecchiaia. “Quello che mi importa del terzo cavallo non è quanto dura, non ho un progetto di longevità, mi interessa vivere il meglio possibile giorno per giorno. Nella mia traduzione dall’ebraico del Qohelet ho reso la parola “hebel” (nella vulgata tradotta come vanitas) con la parola “spreco”: hebel è la stessa parola che indica Abele, la prima vita sprecata nella Bibbia. Il sentimento dell’estensore dell’Ecclesiaste è che, malgrado abbia avuto tante opportunità, ricchezze e opere, tutto questo a lui appare nella somma finale come zero. Invece per me questa è un’età in cui sento di non sprecare niente. C’è un film di Scola, Maccheroni, in cui Mastroianni passeggia sul lungomare di Napoli con Jack Lemmon e esclama: “Com’è bello perdere tempo!”. Lì, il verbo perdere ha esattamente il contrario del suo significato e significa impiegare il tempo in una vita più intensa possibile. Mi accorgo che è bello perdere tempo. Ad esempio con la memoria, imparando poesie e pagine di racconti: il cranio festeggia quando viene utilizzato, non quando viene addormentato.

L’idea che la vecchiaia sia una discesa nelle dimissioni non è vera: il corpo dimostra invece di essere sollecitato, spinto, e sperimenta un entusiasmo che lo fa essere lieto. Ho un corpo lieto e questo dipende anche dalla disciplina acquisita in vent’anni di lavoro operaio che mi hanno ben ingranato le giornate. Mi dispiaceva da giovane vedere che molti operai morivano dopo poco che erano andati in pensione: il corpo non sopporta l’inerzia; mettere al riposo il corpo significa guastare la sua energia. È come con la manna che cadeva ogni giorno dal cielo e andava consumata in giornata perché se la si faceva avanzare per il giorno dopo, trasformandola da dono gratuito a merce di scambio, andava sprecata, marciva. Allo stesso modo, l’energia che abbiamo dentro, se non viene consumata oggi, è persa, marcisce, non va nell’armadio delle energie. Abbiamo una manna quotidiana che dobbiamo consumare tutta quanta”. Anche la possibilità di immaginare il futuro richiede gratuità, disinteresse: “Per vedere il futuro bisogna essere disinteressati, non credere di avere un posto prenotato nel futuro. Noi siamo l’ultima generazione che si è potuta permettere di andare all’arrembaggio delle risorse della Terra. Le prossime generazioni saranno costrette a inventare un’economia della riparazione, a creare un organismo delle nazioni unite dei risanamenti. Immagino una trasformazione che passa da una conversione, la più potente delle inversioni. Come san Paolo, mentre sta andando a fare il persecutore, è dovuto cadere con la faccia per terra diventando cieco per tre giorni, per poi convertirsi fino a proteggere e diffondere quello che stava andando a perseguitare, così nel futuro penso a un’umanità che, dopo avere sbattuto il muso per terra e avere passato un periodo di cecità, si converte e trasforma i rapporti di forza tra la specie umana e l’ambiente arrivando a un’alleanza con la natura. Cose che si vedono in alto, dal bosco, dove si aprono radure e c’è più luce… Goethe morendo pronunciò le sue ultime parole, più luce. Non credo fosse una richiesta, ma la sorpresa di vederla splendere”.

Lo sguardo verso il passato è privo del sentimento della nostalgia: “Non vorrei tornare in nessuna delle stazioni precedenti. Dimentico tutto e le fotografie non aiutano, piazzando un’immagine fissa sulla circostanza di un momento. Ma ogni tanto la memoria mi fa l’elemosina di un ricordo, una monetina che mi sorprende e attorno alla quale riesco a ricostruire tutto un capitale di memoria. Quando scrivo una storia, quel racconto inizia a muoversi, scappa da tutte le parti. Quando arrivo alla fine, ricopio la storia e questa seconda stesura è destinata a qualcuno che forse vorrà leggerla. La terza stesura è la mia responsabilità verso me stesso: se il racconto è buono o meno buono non lo so, ma so che meglio non lo potrei fare e così sono a posto col mio gioco preferito che è raccontare storie”. Tra i ricordi, affiora quello di Ischia, l’isola delle estati nell’infanzia: “Isola che ho dentro alla ossa perché il mio corpo cresceva solo nei tre mesi in cui, seminudo, stava esposto alla luce solare. Nei nove mesi napoletani non si muoveva nessun centimetro: i miei centimetri sono tutti isolani. L’isola mi ha dato la percezione strepitosa della libertà perché permette di guardare tutt’intorno. Il contrario di come hanno visto l’isola tutti i poteri costituiti ossia come luogo ideale per metterci una prigione, con il mare che fa da fossato. Venendo dalla città, sbarcando sull’isola, la prima cosa era spogliarsi e scalzarsi. Formare lentamente sotto la pianta del piede una nuova consistenza: l’inizio della libertà era ispessire la pianta del piede. Una libertà che si fondava dal basso, come sempre si formano le libertà”.

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