Energia, materiali strategici, debito pubblico: la pericolosa dipendenza Ue dalle “non-democrazie”
Con Trump che fra un mese si insedia alla Casa Bianca, pronto a scatenare guerre commerciali contro il mondo intero, l’Europa – se ne sono accorti un po’ tutti – si ritrova in mezzo al guado. Il “fuoco amico” che si annuncia d’oltre Atlantico, infatti, rende più urgente, ma anche più intricato, sciogliere la debolezza genetica che stringe l’Europa: una allarmante dipendenza dai “cattivi”, ovvero quelli che gli uffici studi delle istituzioni internazionali chiamano educatamente “i paesi geopoliticamente distanti” e che molti definiscono le non-democrazie. Nel mondo frammentato e diviso che ci consegna la postglobalizzazione, infatti, molti, troppi input fondamentali per il nostro benessere vengono dall’altra parte del fossato, dove, peraltro, si conservano anche non poche cambiali che abbiamo firmato negli anni scorsi.
Il secondo mandato di Trump. Dobbiamo avere paura di “Tariff man”?
Il petrolio dell’Opec, il metano russo che hanno fatto storicamente impazzire la nostra bolletta dell’energia. E soprattutto, accanto ad arabi e russi, l’ombra lunga dei cinesi. Hanno in mano materiali strategici per il nostro futuro: la stessa condizione di inferiorità che verifichiamo nell’energia si ripete per i capitoli fondamentali del clean-tech. Nickel, cobalto, litio, le batterie, i conduttori per l’elettrolisi dell’idrogeno: per 11 fattori cruciali della transizione ecologica, l’80 per cento delle forniture all’Europa viene dalla Cina. Più in generale, la Bce calcola che i Foreign Critical Inputs – le forniture straniere cruciali per la Ue – rappresentino il 17 per cento di tutto l’import dall’esterno della Unione. Di queste forniture cruciali, un terzo viene dalla Cina e meno di un quinto dagli Stati Uniti. Non ci sono solo le auto, insomma, a rendere problematico il disimpegno europeo dai legami con Pechino. Anzi, non sono le auto il capitolo più importante.
Chi pagherebbe uno stop alle forniture
Che succederebbe, infatti, se le forniture “geopoliticamente distanti” si prosciugassero e non fosse possibile sostituirle? La Bce ha provato a calcolare l’effetto sull’industria europea di un drastico taglio a metà degli input che provengono dall’altra parte del fossato. Sarebbe un duro colpo, per l’Italia anche di più che per gli altri, con una riduzione del valore aggiunto dell’industria manifatturiera superiore al 3 per cento. L’impatto si concentrerebbe sulle aziende medio-grandi, con ampie differenze regionali, in base alle specializzazioni industriali. A pagare sarebbe un po’ tutto il Nord, ma anche la Basilicata e, in particolare, le Marche, titolari di un vivace settore di attrezzature elettriche. Questo comparto, infatti, vedrebbe scendere il suo valore aggiunto del 7-8 per cento, mentre per chimica, macchinari, farmaceutica ed elettronica la riduzione sarebbe del 4-5 per cento.
Il rischio per il debito pubblico
E, poi, ci sono le cambiali, andate moltiplicandosi nel corso degli anni. Di fatto, un terzo del debito pubblico europeo (con quello italiano in prima fila) è conservato nelle riserve valutarie di “quelli là”. Rispetto al 2008, l’esposizione finanziaria verso di loro è raddoppiata.
Nelle tabelle preparate dal Mes (il Fondo Salvastati, bestia nera della destra italiana, ha anche un ufficio studi) si valuta che i titoli europei detenuti nelle riserve di paesi extraeuropei fossero arrivati, al giugno 2023, a 1.260 miliardi di euro (per capirsi, l’equivalente di metà di quanto l’Italia produce in un anno). Di questi, circa metà, oltre 600 miliardi, sono in mano a paesi di cui, oggi, ci fidiamo molto poco.
Nonostante la guerra in Ucraina, i legami finanziari con questi paesi restano imbarazzantemente fitti. Gli investimenti degli europei nei paesi geopoliticamente distanti valgono ancora il 10 per cento del Pil Ue nel caso degli investimenti diretti, più un 6 per cento per quelli solo finanziari: totale, più di 3 mila miliardi. A rovescio, siamo su cifre analoghe: gli investimenti degli “altri” in fabbriche e impianti europei sono pari al 6 per cento del Pil dell’eurozona, e quelli finanziari superano l’8 per cento. Come regola generale, avverte il Mes, più cresce la distanza geopolitica, più diminuiscono gli investimenti. Quando si dice camminare sulle uova.
Condividi questo contenuto: