Veleni in maggioranza e paura per il fedelissimo Marsilio nel fortino Abruzzo. Meloni: “Basta errori”

CAGLIARI — Truzzu chi? Tutta la giornata post scoppola elettorale sarda, a Palazzo Chigi, scorre via in un malcelato tentativo di mascherare la portata del tonfo. Il conto della sconfitta viene spedito per intero sul tavolo dell’impopolare sindaco di Cagliari, imposto da Giorgia Meloni come candidato governatore alla Lega. Paolo Truzzu di buon mattino, dopo una telefonata da Roma e un giro di sms con la premier, si presenta in conferenza stampa all’Hotel T, lo stesso dove Conte festeggiava con Todde poche ore prima, per immolarsi e recitare la parte: «Non c’entrano i fattori nazionali, è stato un voto contro il sottoscritto». Ma FdI intanto prepara un dossier per capire, seggio per seggio, se il voto disgiunto sia da imputare in buona parte a Salvini.

Veleni in maggioranza. Meloni: “Basta errori”

La reazione di Meloni viene affidata a una nota, già concordata l’altro ieri al pranzo col vice leghista e con Antonio Tajani. I tre si risentono rapidamente al mattino presto, per gli ultimi ritocchi. È soprattutto Meloni a premere per far vedere che la coalizione, che sulla Sardegna si è accapigliata per settimane, invece è unita. La nota ricalca quanto scritto sul mattinale “Ore 11” di Fazzolari (l’argomento era liquidato in 3 righe). Toni quasi surreali: si parla «dell’ottimo risultato delle liste». La colpa è tutta «del candidato presidente». Unica concessione: «Ragioneremo insieme per valutare i possibili errori». Lo stesso ripete la premier via tweet, dopo avere sentito Todde.

Al netto delle esternazioni, Meloni è crucciata. Altro che beghe locali. In ballo c’è il consenso nel Paese, che era sicura di avere in pugno e che invece, dopo il voto sardo, comincia a incrinarsi. Per derubricare la Sardegna a intoppo isolato, tocca evitare un clamoroso bis. Ecco perché la prossima settimana la premier si precipiterà in Abruzzo, dove si vota tra meno di due settimane: è previsto un comizio il 5 marzo, a L’Aquila. Forse un altro a Pescara.

L’Abruzzo non è una regione qualsiasi, per i Fratelli. A governarla, da 5 anni, è Marco Marsilio. Non solo colonnello di FdI, ma un politico cresciuto nella cerchia di Colle Oppio, la stessa in cui si è forgiata Meloni. È legato a doppio filo con la premier e col partito romano: sua sorella Laura è stata assessora di Gianni Alemanno, ai tempi di An. Marco Scurria, cognato di Fabio Rampelli, è stato spedito a L’Aquila come capo staff della Regione, prima di essere promosso senatore da Meloni. Il sindaco de L’Aquila, Pierluigi Biondi, ex Casapound, sei mesi fa è stato promosso dalla premier responsabile Enti locali del partito nazionale. Insomma, se davvero le cose anche in Abruzzo si mettessero male, per Meloni sarebbe impossibile smarcarsi: la Regione è una sorta di succursale del partito romano.

In teoria, come lo era la Sardegna, anche l’Abruzzo sarebbe un match chiuso. Ma il centrosinistra si è aggregato in formato campo larghissimo – da Azione e Iv ai rossoverdi, insieme a Pd e 5 Stelle – e stando agli ultimi sondaggi commissionati dal Nazareno la distanza si sarebbe ridotta a una manciata di punti. Ecco perché a via della Scrofa, dopo la sveglia di Cagliari, iniziano a preoccuparsi sul serio. Meloni ci sta mettendo la testa. Più di quanto avrebbe voluto, visti i dossier sempre più rognosi, nazionali e internazionali, che planano sulla sua scrivania. Altro segnale: giovedì è attesa al Cipes, per sbloccare il raddoppio della Roma-Pescara.

Se agli alleati – soprattutto alla Lega, ma anche a FI – non dispiace troppo vedere FdI per la prima volta in difficoltà, Meloni anche ieri sera si mostrava spavalda. Alla cena della stampa estera, che ha appena traslocato a Palazzo Grazioli («Berlusconi direbbe che si è trasferita qui una banda di comunisti»), ha provato a dissimulare la stizza. Battute e gag studiate: «A Mario Draghi avete portato sfiga», perché il suo governo cadde 48 ore dopo l’incontro coi corrispondenti stranieri. «Mi invitate nel giorno in cui perdo le elezioni in Sardegna e sto pure facendo la Quaresima: non posso neanche affogare i dispiaceri nell’alcol». Ma scenette a parte, Meloni ha fatto capire di non sentirsi all’angolo. Ha rilanciato sul premierato: «Non è autoritarismo». Sulla tenuta del governo: «Resterò premier più degli altri». E ha mandato quello che pare un messaggio a chi la ostacola, anche a destra, vedi Salvini: «Sono buona ma mai sottovalutare un buono costretto a diventare cattivo».

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