Pupi Avati: “A 86 anni mi sono rinnamorato di mia moglie”
“Mi sono innamorato di mia moglie”. La canzone di Gianni Nazzaro potrebbe essere la colonna sonora perfetta per accompagnare la dichiarazione che Pupi Avati ha voluto fare alla consorte (Amelia Turri, chiamata “Nicola” in onore del nonno molto amato”), affidandola a Il foglio. “So che la ragazza che ho sposato sessant’anni fa non leggerà mai questa mia confidenza, quindi mi sento libero di essere assolutamente sincero”.
Il regista, 86 anni e un film consegnato all’ultima Mostra di Venezia (L’orto americano, in sala il 6 marzo), fa una giusta distinzione che vige tra i suoi coetanei, quella tra le mogli avute prima di raggiungere il successo e quelle venute dopo. Una parabola di cui in genere i famosi parlano malvolentieri, perché si tratta di quelle compagne di vita che “dopo averti supportato nell’affrontare la più impervia delle salite è destinata a scomparire, risucchiata nell’anonimato”.
Si, sono quelle ex che ti hanno mantenuto quando scrivevi e sognavi, ascoltato le tue frustrazioni nelle serate mentre ti preparavano la cena, spesso erano donne molto più avvenenti di te, vere colonne, ma che raggiunto il successo hai pensato di abbandonare insieme al vecchio te stesso, abbracciandone una molto più giovane innamorata anche del successo. “Quella che nelle tante sere di depressione, quando fosti tentato di rinunciare ai tuoi sogni, ha ereditato il ruolo di tua madre continuando a ripeterti che ce l’avresti fatta”, spiega il regista con la schiettezza a cui è abituato. “Se a metà degli anni Sessanta provai per lei la più forte attrazione che abbia mai provato, il rinnamorarsi a 86 anni di quella ragazza ha a che fare con l’ineffabile. O con la demenza senile”.
In realtà in tanti anni e in tante interviste, il cineasta ha spesso ricordato quanto lei fosse circondata di corteggiatori e partiti migliori lui, del fatto che era la più bella ragazza di Bologna. E con lei ha costruito una famiglia, tre figli, una vita vissuta tra gioie e dolori “nei suoi occhi – scrive – ci sono gli infiniti giorni del dolore per la perdita del nipotino, il rammarico per le mie reiterate sconfitte”. E il tempo che lei gli ha dato “è l’intera sua vita, rinunciando alle molte ambizioni personali”, rassegnandosi “a vivere il mio egocentrismo come uno stigma”.
E come coppia i due ce l’hanno fatta, in un ambiente, quello del cinema “che non era il più raccomandabile per salvaguardare un matrimonio”. Gli anni più difficili “quelli in cui fummo più prossimi a una definitiva separazione, furono quelli in cui ero totalmente concentrato nella folle impresa di transitare dai rassicuranti bastoncini di pesce (era venditore di surgelati), alla chimerica Macchina da presa”. L’augurio con cui chiude la missiva, è: “Vorrei che lei si rinnamorasse di me, come io in questo tramonto, mi sto rinnamorando di lei. E vorrei soprattutto che in questo lungo e insidioso percorso di insofferenze e gioie, quel misterioso ‘per sempre’ si avverasse”.
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