L’ultimo drink, una commedia toccante e autentica ad alta gradazione alcolica. In streaming su MYmovies
Una commedia tedesca. Sembra un ossimoro, una contraddizione in termini. E sull’alcolismo, poi. E con in mezzo una canzone di Nick Drake, la voce più desolata, disperata e struggente che si possa immaginare. E ambientata a Berlino, camere con vista sulla U-Bahn gialla in mezzo all’inverno nero.
Poteva sembrare una missione impossibile: e invece la missione riesce. Ne viene fuori una storia toccante e autentica, con due interpretazioni notevoli: quella accattivante e umana di Frederick Lau e quella ruvida, asciutta di Nora Tschirner.
L’ultimo drink racconta una storia, anzi: almeno due storie di lotta con l’alcolismo, ma senza inseguire il patetico. Lo fa con guizzi di humour, e con una tensione sentimentale che non si fa sentimentalismo. Ci tiene in costante, prezioso equilibrio fra risata e dolore: e a volte lo fa persino nella stessa inquadratura, passando dal comico al patetico in una frazione di secondo.
Immaginatevi Locke, il film di Steven Knight con Tom Hardy di una decina d’anni fa. E poi rovesciate tutto. Il protagonista è un capocantiere, in entrambi i casi. E in entrambi i casi, all’inizio del film, lo vediamo entrare nella sua auto.
Poi i film prendono de direzioni totalmente opposte. In Locke, Tom Hardy metteva in moto e, in un percorso notturno in autostrada, provava a riaggiustare la sua vita, prendendosi ogni responsabilità, pagando un prezzo altissimo per questo. Qui, il protagonista l’auto non riesce neanche a farla partire. E la sua vita, invece di riaggiustarla, inizia a farla a pezzi.
È appena uscito da un bar, dopo una notte di bevute, e ha solo preso l’auto per parcheggiarla meglio. Un poliziotto si accosta al finestrino. Patente ritirata, per almeno tre mesi. E per riottenerla, deve superare un esame medico/psicologico. Una sorta di programma di recupero, tipo alcolisti anonimi.
La vita degli alcolisti è sempre doppia, è sempre uno slalom fra mille scuse, sotterfugi ingegnosi inventati per nascondere agli altri la propria dipendenza: è una vita dottor Jekyll e mister Alcol. E questo, il film lo mostra bene. Al mattino, al lavoro nei cantieri, Mark è disinvolto, deciso, affidabile. Rispetta tutti, e tutti lo rispettano.
Ma la sera, l’alcol sembra per lui l’unica risposta ad una vita che non ha altri punti di ancoraggio. E in una cena da amici, vediamo nitidamente tutto l’arco costituzionale delle sue condizioni. Euforico, prima: coinvolgente, simpatico, allegro. Poi un po’ troppo allegro, un po’ troppo sopra le righe, piano piano imbarazzante.
E alla fine, patetico, miserabile. È notte quando irrompe nella stanza dove l’amico dorme con la sua ragazza, incapace di raggiungere un letto. È mattina quando scambia una poltrona preziosa per un orinatoio, totalmente incosciente. E in pochi minuti, siamo passati anche noi dall’euforia all’amarezza.
Fra gli alcolisti del corso di riabilitazione c’è Helena, interpretata da Nora Tschirner. È una insegnante elementare. Una mattina, si è trovata a vomitare l’anima, in classe, di fronte a venti bambini sgomenti.
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Sull’argomento ci sono film potenti e drammatici, c’è un capolavoro ruvido e vero come My Name Is Joe di Ken Loach, con un Peter Mullan – premiato come Miglior Attore a Cannes – che il Frederick Lau di questo film a tratti ricorda, anche nel fisico.
My Name Is Joe era un film affondato nelle problematiche sociali, fra ragazzi emarginati, tossicodipendenze, suicidi. C’è un film entrato nella storia del cinema, come Giorni perduti, che valse a Billy Wilder la Palma d’oro a Cannes e l’Oscar per il Miglior Dilm.
C’è il Jack Lemmon alcolista ne Igiorni del vino e delle rose di Blake Edwards, e c’è un film come Notre histoire di Bertrand Blier. L’ultimo drink non cambierà la storia del cinema. Ma riesce a raccontarci il problema con onestà, senza troppi solfiti nel racconto.
Si sente sincerità nel film, realizzato dal regista Markus Goller e dallo sceneggiatore Oliver Ziegenbalg – già autori di Friendship (2010) e 25 KM/H (2018), campioni di incasso in Germania. Tutto, dicono, si ispira ad una loro esperienza di vita. E si sente. Ma più ancora della sceneggiatura, in alcuni tratti schematica, è la recitazione a dare corpo, sostanza, verità al film.
Frederick Lau ti porta a stare dalla sua parte anche quando fa cose orrende, è pasticcione, infantile, indulgente verso sé e verso gli altri. Nora Tschirner è amara, cinica, brusca, e capisci che dentro c’è anche una dolcezza nascosta. Molto bravo, in un ruolo che poteva essere stereotipato, Burak Yigit, che interpreta l’amico dell’uomo, Nadim.
A questo punto, tu che leggi potresti immaginare che tutto scivoli verso il lato sentimentale del racconto: due solitudini che si puntellano, che diventano insieme un nucleo di resilienza, di rinascita. Eh, troppo facile. Guarda il film, perché non ci sono soluzioni troppo semplici, nella storia che racconta. Non c’è neppure, a ben pensarci, un “cattivo”, quello che serve sempre nelle sceneggiature: la società, lo Stato, la polizia, un “altro” che ti disprezza, che non capisce. No, il cattivo vero è dentro di te. E la cosa diventa più sottile, e più vera.
Ogni battaglia deve cominciare dentro di noi, e il film si avvia dentro una strada che viene quasi da definire psicanalitica. E chissà, sarà un caso che il protagonista, di cognome, faccia Jung. Magari no.
Berlino, intorno ai protagonisti, è filmata con attenzione, ma senza cercare cartoline inutili. Lui ha la casa con balcone su Hallesches Tor e sull’America Gedenkbibliotek, nel quartiere un tempo leggendario di Kreuzberg: il cantiere ha le travi con vista sulla Fernsehturm di Alexanderplatz.
Nelle strade, è una Berlino notturna, molto americana, gelida, anonima. Dove sembra abbastanza naturale entrare in un bar e bere per scrollarsi di dosso la solitudine. Le canzoni del film sono scelte con cura, e toccano l’anima, con “Love Will Tear Us Apart” dei Joy Division in una scena chiave, e “Place To Be” di Nick Drake, gioiello di desolazione, nel finale.
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