Francesco Di Bella: “L’amore può essere politico e la musica alternativa non è mai morta”

Chi ha detto che un disco d’amore non possa essere politico? Per esempio Francesco Di Bella – 52 anni da Napoli, cantautore e frontman dei 24 Grana, band chiave del rock anni novanta – rivendica che il suo nuovo album Acqua santa, quinto da solista, in dialetto partenopeo e spinto verso sonorità d’autore e jazz, è “profondamente politico”. C’è solo da mettere qualche “paletto”, una disciplina in cui lui, ambasciatore della musica alternativa da una vita, eccelle: “Parlo di amore universale, non di relazioni sentimentali in senso stretto. O almeno: di un amore quotidiano, non di innamoramenti. Di stasi. E poi di valori come la condivisione, la comprensione, la fratellanza”. Il tour di Di Bella comincia l’1 marzo dal Teatro Trianon Viviani a Napoli per poi proseguire il 6 al Monk Club a Roma, il 7 al Locomotiv Club a Bologna, l’8 allo Spazio 211 a Torino, il 9 a Santeria Toscana 31 a Milano, il 14 all’Officina Degli Esordi a Bari e il 15 allo Spazioporto a Taranto.

Lei ha citato valori importanti, li vede poco in giro?
“Le notizie d’attualità raccontano questo. Ci siamo chiusi nell’individualismo e siamo insensibili al diverso. Specie a occidente, dove stiamo anche meglio rispetto a zone più povere. E questi temi sono spariti dalle canzoni, che non sono più politiche, appunto. Le mie lo sono, tirano in ballo valori che ci riguardano, tutti. Come la fratellanza”.

Oggi le canzoni “d’amore” parlano solo di relazioni, in effetti, e in momenti focali: l’inizio, la fine, nient’altro.
“Ho raccontato anche quel tipo di amore, certo, ma concentrandomi sulla stasi. Sarà che sono in uno stato di grazia, ma ho voluto risparmiarmi, appunto, i picchi. L’inizio e la fine. Per me l’amore è pace, soprattutto. Tregua. C’è bisogno, comunque, di parlare di vicinanza tra uomini”.

Non è retorica anche questa?
“Retorica buonista dice? Magari sì, anche se mi sono preoccupato di non finirci dentro. Nel disco precedente ‘O diavolo, del 2018, mi ero concentrato sui temi più divisivi dell’umanità; con Acqua santa ho preferito raccontare ciò che unisce, in maniera naturale. Anche solo per ricordarmi che le cose buone esistono. E se alla fine risultassi retorico, be’, non me ne preoccuperei: dirmi da solo di esserlo significa mettermi un altro bavaglio, in un’epoca in cui ne abbiamo già troppi”.

Di Bella canta ” ‘O diavolo”, tra disordine e complicità

Crede nelle persone?
“Credo nelle masse critiche e che il potere delle persone possa essere indirizzato sia verso il bene e sia verso il male. Siamo a un bivio”.

Crede nei politici di oggi?
“Affatto. Però credo nella politica fatta bene, che è lo strumento migliore per indirizzare le masse”.

E nelle nuove generazioni?
“Tanto. Hanno un senso critico molto sviluppato. Ciò che manca, rispetto a quand’ero ragazzo, è la dimensione collettiva: da Genova, nel 2001, quel modo di fare è stato stroncato; ora sta tornando, ci sono parecchie cellule interessanti che però, ecco, vorrei si unissero. Ci sarà tempo”.

A proposito di giovani: la realizzazione di Acqua santa, specie dal punto di vista estetico, è stata affidata al Thru Collected, un collettivo di ragazzi della sua Napoli.
“Ne sono fan da due anni. In loro ho rivisto lo spirito dei 24 Grana, quel fregarsene di tutto e tutti, in primis delle regole, dei soldi e del diventare famosi, che adoro. Non fanno trap, non seguono le mode. Sono selvaggi. E, mi permetto, per loro dev’essere ancor più difficile: negli anni novanta c’erano tanti paletti, gli alternativi erano orgogliosi di esserlo e avevano parecchie attenzioni; oggi l’underground sta tornando, pur se in ritardo rispetto all’estero, ma in generale c’è meno voglia di stare fuori da certi giri, di distinguersi”.

Come mai?
“Non lo so. Ma penso, per esempio, a Sanremo: per noi era un ‘no’ categorico, oggi ci va chiunque, anche miei amici stretti”.

E lei, che pubblica un album di inediti così a ridosso del Festival, sta provocando?
“Ma no, si figuri. Maturando sono diventato più flessibile. Però, ecco, non sono mai stato veramente convinto di andarci. Faccio musica alternativa, davvero. Esiste ancora. Giro per zone periferiche, nel senso che pesco da sonorità che vanno per la minore. Il rischio, prestandosi a certi meccanismi, che producono aberrazioni, è di perderne in purezza”.

Il prezzo della sua scelta qual è?
“Non c’è, se non il duro lavoro. C’è un pregio, però, che è quello di poter fare musica come ce la si sente davvero. E poi, si figuri, non sono tarato per l’Ariston già solo perché canto in dialetto”.

Eppure lo scorso anno Geolier è arrivato secondo con un pezzo in napoletano. Non le torna?
“Il discorso è diverso: alle spalle aveva una grande produzione che, anche per merito suo, ha deciso di investirci su. Una rinascita della musica in dialetto c’è, ma è circoscritta all’urban e a poco altro. A ciò che, insomma, fa tendenza. Non dico non mi piaccia il rap, anche se gran parte della trap non mi trasmette emozioni, al contrario di musica nuova come, per esempio, Lola Young. Il punto è che non se ne esce: la Napoli che emerge da lì è una città da cartolina come quella di Gomorra, a uso e consumo di chi non la vive e si accontenta delle solite narrazioni”.

Cos’è, per lei, che l’Italia non ha ancora capito di Napoli?
“Che è una città italiana ed europea, dove accadono tante cose, ma che di base appartiene al proprio contesto. Sento spesso dire che è la più internazionale d’Italia. Quel ‘più’ non mi torna, è il voler cercare lo stereotipo a tutti i costi. E poi non siamo mica così autoreferenziali”.

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