Età media, genere e innovazione, la lenta transizione dei manager
Più capace di comprendere gli sviluppi della tecnologia, che rivoluzionano in maniera trasversale ogni settore. In grado di governare strutture di lavoro meno gerarchiche, all’interno delle quali interagiscono competenze diverse e variegate. Predisposto a concepire l’azienda come parte di un contesto sociale più ampio, facendosi carico di tematiche come la sostenibilità ambientale, la parità di genere, il benessere dei lavoratori, le tensioni geopolitiche. Più, più, più: in un mondo fatto di variabili sempre più numerose, instabili e interconnesse, di geografie che si riorganizzano e perennemente sull’orlo di una crisi, ai manager del futuro – o del nuovo presente – viene richiesto molto di più: «Le chiavi del successo cambiano», sintetizza Mario Mantovani, presidente di Manageritalia. «In un quadro che si allarga e diventa più complesso serve meno la competenza specialistica che si cercava negli anni ‘80 e un maggiore eclettismo».
Una nuova cultura
Più cultura, si potrebbe addirittura dire, visto che le sfide, i problemi e le soluzioni hanno dimensioni sociali e di costume decisive. I manager e gli imprenditori-manager italiani hanno questa sensibilità? Una radiografia del settore restituisce l’immagine di una categoria in transizione, ma molto lenta. Il ricambio generazionale c’è, l’età media dei dirigenti d’azienda italiani si abbassa leggermente, a differenza di quella della popolazione nel suo complesso, ma resta comunque alta, sopra i 50 anni. E se in un universo professionale che fino a qualche tempo fa era quasi solo maschile le donne recuperano spazio, circa un terzo delle nuove nomine, restano comunque una minoranza, poco più di due su dieci nel complesso.
Equilibrio tra generazioni
Un cambiamento rallentato dal fatto che si tende – o in alcuni casi si è costretti – a restare al lavoro più a lungo e di norma, una volta raggiunto un ruolo di vertice, si prova a mantenerlo fino al pensionamento. Un migliore equilibrio generazionale, nelle prime linee di Italia Spa, passerà anche dalla capacità di immaginare per i più esperti dei ruoli nuovi e “laterali”, che li tengano a bordo dell’organizzazione senza per questo ostacolare l’ascesa della generazione successiva.
Né, da sola, un’anagrafe più verde è garanzia di una cultura imprenditoriale innovativa. Per i manager dell’era della policrisi sarà decisiva anche la formazione. Quella che si acquisisce nelle grandi business school globali, dove le competenze soft, relazionali e trasversali sono ormai al centro dei curriculum più di quelle finanziarie o tecniche. E la formazione che si acquisisce “sul campo” lavorando nelle società più grandi e internazionalizzate, dove ci si confronta ogni giorno con una concorrenza globale. Anche qui l’Italia delle piccole e medie imprese sconta un ritardo strutturale, vista la scarsa presenza di queste multinazionali “palestra”: «I manager italiani sono molto appezzati, anche all’estero, per le loro doti di problem solving: c’è del vero nell’adagio secondo cui se ce la fai in Italia all’estero tutto sembrerà facile – spiega Mantovani – Ma più che il prodotto di una vera e propria scuola manageriale, in grandi multinazionali come nel mondo anglosassone o in istituzioni come l’Ena in Francia, si tratta di singole figure emerse in un contesto molto parcellizzato».
Affari di famiglia
L’alternativa, sempre più valida, è andare a farsi le ossa all’estero. Con la prospettiva concreta di restarci, visto che poi – ed è un altro dei limiti italiani – qui non sono poi così tante le aziende che un manager effettivamente lo vogliono. È il tema, complesso e centrale, del gran numero di Pmi familiari del capitalismo italiano. Dove quello che ci distingue dai vicini non è tanto la loro diffusione, visto che i valori sono simili a Germania o Francia, quanto il fatto che da noi quelle imprese sono anche direttamente gestite dai membri della famiglia, mentre all’estero vengono affidate a dei manager professionisti.
Qualche passo in avanti si vede, ma anche qui è lento. Frenato dalla scarsa apertura della compagine societaria a capitali esterni alle famiglie, il cui ingresso è di solito il principale acceleratore dell’evoluzione di un’azienda, anche in chiave manageriale.
L’attenzione per i lavoratori
Essere manager in Italia significa doversi misurare con questa cultura padronale tradizionale ancora diffusa. Ma che allo stesso tempo, sul fronte della sensibilità dei lavoratori, soprattutto i più giovani, sta evolvendo. La pandemia da questo punto di vista è stata un grande acceleratore: da un lato rendendo evidente la difficoltà di reclutare manodopera, in un Paese che perde e perderà sempre più lavoratori; dall’altro mostrando come le persone che se lo possono permettere stiano diventando sempre più selettive rispetto alle offerte di impiego, ai salari e all’equilibrio tra lavoro e vita privata. Anche questo è parte della svolta culturale che i manager dei prossimi anni dovranno portare in azienda. forzando dove necessario le resistenze degli stessi azionisti: promuovere una nuova cultura del lavoro, basata sulla giusta retribuzione, sulla flessibilità e in definitiva sul benessere dei collaboratori.
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