‘Berlinguer ti voglio bene’, Benigni poetico e disperato tra politica, sesso e rivoluzione
Berlinguer ti voglio bene è un film del 1977. Uscì il 6 ottobre di quell’anno. Il giorno dopo, sulla rivista Rinascita, uscì la famosa lettera di Enrico Berlinguer al vescovo di Ivrea, monsignor Luigi Bettazzi, con la quale il segretario del PCI apriva in modo significativo al mondo cattolico. Del resto erano anni di compromesso storico. Il 7 novembre del ’77 Berlinguer si recò a Mosca per le celebrazioni del 60esimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. In quell’occasione dichiarò: «L’esperienza compiuta ci ha portato alla conclusione che la democrazia è oggi non soltanto il terreno sul quale l’avversario di classe è costretto a retrocedere, ma è anche il valore storicamente universale sul quale fondare un’originale società socialista». Lo strappo con l’URSS era ormai consumato. Nel frattempo il film arrancava nelle sale italiane: non fu un grande successo, anche perché la distribuzione fu un po’ a macchia di leopardo, in diverse regioni non uscì proprio e il divieto ai minori di 18 anni non aiutava.
Mentre Berlinguer dialogava con i cattolici e tagliava i ponti con i Paesi del socialismo reale, sullo schermo Roberto Benigni parlava con lui in forma di spaventapasseri. Berlinguer ti voglio bene si svolge tutto nelle campagne intorno a Prato (Vergaio, che è il paese natale di Benigni, e altre località come Galciana, Mezzana, Casale, Grignano e Jolo). A ripensarlo, è uno dei pochi film “rurali” del cinema italiano e non è un caso che i dialoghi fra Cioni Mario – l’alter ego di Benigni, in quegli anni – e l’effigie di Berlinguer si svolgano in un campo.
Dal segretario, Cioni e i suoi amici si aspettano “il via”: dovrebbe apparire in tv e, all’improvviso, dire “compagni, via!”. E si fa la rivoluzione. Quella rivoluzione che nella politica reale il PCI non voleva fare già dai tempi di Togliatti: ma con Berlinguer era ormai ufficiale che si sarebbe rimasti sempre e comunque nell’alveo della democrazia. Questo è uno dei motivi profondi per i quali Berlinguer ti voglio bene è un film al tempo stesso poetico e disperato. Racconta una contraddizione insanabile: una “base” proletaria, o sottoproletaria, che sogna un rovesciamento radicale di ogni rapporto sociale, a cominciare da quello economico; e un vertice che persegue una politica di cambiamenti graduali, ma verso il quale la base mantiene un atteggiamento fiduciario, quasi fideistico, comunque sentimentale. E solo perché c’è Berlinguer. “Ti voglio bene”: a quale altro leader politico, di allora e di oggi, si potrebbe rivolgere una simile frase? A lui, si poteva.
Quindi Berlinguer ti voglio bene è un film a suo modo romantico, ma essendo del 1977 è anche un film punk. In Inghilterra avevano i Sex Pistols, noi avevamo i CCCP e Cioni Mario. Il cinema italiano non era mai arrivato a simili vertici di turpiloquio e di oscenità; né potrebbe mai arrivarci oggi (al paragone con Checco Zalone ci arriviamo, tranquilli, ma è fuorviante). Ma il vero aspetto punk del Benigni anni 70 non sono le parolacce: è la corporeità, il parlare continuamente di parti del corpo “non nobili” e di deiezioni (durante le riprese Roberto scrisse il famoso Inno del corpo sciolto, ma poi decise di non metterlo nel film). E soprattutto un altro aspetto, il più perturbante: la continua equiparazione fra sesso, politica e appartenenza di classe. Il comunismo, dice Cioni Mario, è come il primo orgasmo di un ragazzino: “È come prima di farsi la prima sega che si viene a letto da sé. Si fa: ‘Dio bono, che cosa m’è successo?’ ‘Niente, o fanciullo, sei venuto! Quello che non funzionava ora funziona. Godi!’. Ecco, il comunismo è come un ragazzo prima di farsi la prima sega. Arriverà la mattina da sé, si dice: ‘Che cosa ci è successo?’ ‘Niente, popolo! Sei venuto! Quello che non funzionava ora funziona! E godi!’”. Sembra tutto porcellone e godereccio, ma non è un caso che si parli di onanismo, di sesso solitario, cosa che accade lungo tutto il film. E qui è venuto il momento di parlare dell’altra mente pensante che, accanto a Benigni, sta dietro Berlinguer ti voglio bene: il regista del film, Giuseppe Bertolucci.
Nato nel 1947 (e scomparso prematuramente nel 2012), Giuseppe ha trent’anni quando gira il film. È la sua opera prima, ha girato solo alcuni documentari. È figlio di un poeta (Attilio) ed è poeta a sua volta, oltre che cineasta, come il suo fratello maggiore (Bernardo). Viene da una famiglia borghese, colta, benestante. È il “gemello diverso” di cui Benigni ha bisogno (hanno scritto assieme il monologo Cioni Mario di Gaspare fu Giulia che ha reso Roberto popolare nel giro dei teatrini off). Soprattutto, come il fratello maggiore Bernardo, è stato amico e in qualche modo “allievo” di Pier Paolo Pasolini. E Berlinguer ti voglio bene è un film che ha molto a che vedere con Pasolini. Nei suoi primi film “di borgata”, e poi nella trilogia della vita, Pasolini aveva cantato l’esuberanza e la libertà sessuale del sottoproletariato. Con Salò, invece, aveva messo in scena il sesso come morte e sopraffazione di classe.
Bertolucci e Benigni vanno oltre. Anziché un sottoproletariato sessualmente attivo, mettono in scena un sottoproletariato inibito. Il comunismo è come un orgasmo, ma non arriverà: il sesso è atrofizzato, assente. In una scena al tempo stesso buffissima e tristissima Cioni usa una bottiglia di Coca-Cola nella patta per far credere a una ragazza, in balera, di essere eccitato e superdotato. L’unico sesso “realizzato” nel film è l’atroce trovata di Bozzone, il solito compagno selvaggio del Cioni (l’incredibile Carlo Monni), che vuole andare a letto con la madre dell’amico. Nel sottoproletariato non c’è più alcuna vitalità. C’è solo la filastrocca che Bozzone recita all’amico: “No’ semo quella razza | che non sta troppo bene | che di giorno salta fossi | e la sera le cene. || Lo posso grida’ forte | fino a diventa’ fioco | no’ semo quella razza | che tromba tanto poco. || Noi semo quella razza | che al cinema s’intasa | pe’ vede’ donne ‘gnude | e farsi seghe a casa. || Eppure, la natura ci insegna | sia su’ i monti, sia a valle | che si po’ nascer bruchi | pe’ diventa’ farfalle. || Noi semo quella razza | che l’è tra le più strane | che bruchi semo nati | e bruchi si rimane. || Quella razza semo noi | l’è inutile far finta: | c’ha trombato la miseria | e semo rimasti incinta”.
Benigni viene da quel mondo, appartiene a quella “razza”. Bertolucci no, viene da Parma (patria del comunismo più opulento che si sia mai visto) e dal quartiere romano di Monteverde vecchio. Insieme la osservano, quella “razza”, e la celebrano nella sua bruttezza perché non c’è nulla di “bello” in Berlinguer ti voglio bene, né i paesaggi né le persone, nemmeno il volto altero di Alida Valli che si presta a fare la mamma del Cioni, e non si è mai vista nel nostro cinema una diva d’antan che si presti a deturpare in quel modo la propria immagine (l’unico paragone possibile è Nino Manfredi in Brutti sporchi e cattivi di Ettore Scola, film di appena un anno prima, 1976: ma Alida Valli rispetto a Manfredi parte da uno status e da un’iconografia del tutto diversi).
La potenza del film – che oggi, sospettiamo, rimane inalterata, forse addirittura amplificata dal tempo – sta tutta nell’ambiguità dello sguardo. Si celebra la rivoluzione ma la si paragona all’autoerotismo. Si ama Berlinguer ma si sa che Berlinguer e il PCI non sono la soluzione. Si parla di sesso ma non lo si fa. Si sognano l’eguaglianza e la libertà ma si tengono discussioni politiche di surreale maschilismo (“Pole la donna essere uguale all’omo? No, nun pole! È aperto il dibattito”). La prima regia di Benigni sarà, sei anni dopo, un film intitolato Tu mi turbi: ma il vero film “perturbante” di Benigni è questo.
Sì diceva di Checco Zalone. Anche lui dice un sacco di parolacce. Ma, in primis, non bestemmia, perché è pugliese, non toscano. Inoltre non è sottoproletario: i suoi personaggi sono piccolo-borghesi che ambiscono a un livello sociale più elevato e remunerativo. Soprattutto, non parla di funzioni corporali, ma di rapporti e comportamenti sociali. La sua genialità sta nello sfottere, contemporaneamente, coloro che cita nelle sue battute e coloro che ridono di quelle stesse battute (è un aspetto dello Zalone comico quasi miracoloso, con pochi eguali); i gay e gli omofobi, nell’arco di una sola canzone (Gli uomini sessuali). Benigni era un corpo, Zalone è una mente. La mente di Benigni, in quel primo periodo della sua carriera, era Giuseppe Bertolucci. Noi siamo convinti che Luca Medici (l’uomo che si nasconde dietro la maschera di Checco Zalone) sia un genio, ma crediamo che almeno al cinema il suo limite sia quello di non avere accanto un regista co-autore paragonabile a Giuseppe Bertolucci. Anche per questo Berlinguer ti voglio bene è qualcosa di irripetibile: perché non c’è più Bertolucci, non c’è più QUEL Benigni, e va da sé, è inutile dirlo, non c’è più Berlinguer.
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