‘American fiction’, l’outsider scorretto che punta all’Oscar

Una scritta col gesso indica l’oggetto della lezione del giorno, il racconto breve The artificial nigger (Il negro artificiale) di Flaggery O’Connor. «Qualcuno vuole iniziare?», chiede il professore. Una studentessa, carnagione lattea e capelli blu alza la mano: «Non ho nulla da dire sulla lettura, penso solo che la parola alla lavagna sia sbagliata». È a disagio. Il docente fa notare che in un corso di storia della Letteratura americana degli Stati del Sud alcune espressioni vanno considerate nel contesto, la ragazza lascia l’aula turbata. American fiction va dritto al punto fin dalla prima scena: tratto dal romanzo Cancellazione di Percival Everett (edito nel 2001), il film debutto del 42enne Corden Jefferson affronta con sarcasmo la povertà di immaginazione con cui i media contemporanei descrivono i neri, come faceva Bamboozled di Spike Lee.

Premio del pubblico al Festival di Toronto, American fiction è l’outsider nella corsa agli Oscar — negli ultimi anni terra di woke — corre per cinque statuette: film, protagonista e non (Jeffrey Wright e Sterling K Brown), sceneggiatura non originale e colonna sonora. Theolonious Ellison — detto Monk — afroamericano di Boston è un professore universitario di letteratura e uno scrittore rispettato. La sua irritazione per l’eccesso di sensibilità degli studenti lo fa “mettere in congedo” dall’università, mentre il suo ultimo libro viene rifiutato dagli editori perché “non è abbastanza nero”.

‘American Fiction’, il film sul tema “woke” che sta conquistando il box office negli Usa

A un seminario a Boston s’imbatte, infastidito, in un’applaudita collega il cui bestseller, Vita nel ghetto, asseconda gli stereotipi sui neri. In parallelo scorrono malinconiche le vicende familiari di Monk, la madre malata di Alzheimer, il venir meno della sorella (Tracee Ellis Ross), l’incapacità sua e del fratello (Brown) di pagare le cure della madre. In un impeto di rabbia l’autore scrive in una notte My pafology (con lo pseudonimo di Starr H. Leigh), romanzo zeppo di stereotipi sui neri: ghetto, crack, miseria, famiglie sfasciate. Fatto inviare alle case editrici a mo’ di beffa, il libro entusiasma un grande editore, folgorato dalla “verità che si respira nel racconto”. L’entusiasmo che non si smorza neanche di fronte alla richiesta provocatoria di cambiare titolo in Fuck. Dilaniato tra la rabbia e la necessità economica — 750 mila dollari servono per aiutare la madre — lo scrittore s’inventa un alter ego, un evaso in fuga, per celare la sua identità. Chiamato nella giuria di un prestigioso premio letterario, si troverà a giudicare in incognito il suo stesso libro insieme alla sua “rivale” di Vita da ghetto.

American fiction riflette sugli stereotipi e le semplificazioni, l’ironia come antidoto contro ogni razzismo. Il ragionamento vale per l’editoria come per Hollywood: Jefferson ha raccontato di un suo amico sceneggiatore convocato dai produttori che, dopo aver spiegato di essere interessato a commedie romantiche o a un thriller erotico anni 90, si è visto offrire la storia di uno schiavo cieco che grazie a un benefattore bianco impara a suonare il piano e diventa un artista prodigio.

I pregiudizi prescindono da razza, genere, Paese. Paola Cortellesi spiegava che in Scusate se esisto «c’era il senso di invisibilità che avevo in tavoli molto maschili. Proponi una cosa bella e guardano l’altro autore del tuo film, maschio. Lodano la sceneggiatura, scoprono che ci sei anche tu: “Hai dato una mano?”. È una mentalità che va sradicata, ma quando lo sottolinei sei considerata una rompipalle». Il personaggio di Monk estremizza il concetto di rompipalle:se la prende col commesso di una libreria perché la sua rielaborazione di I Persiani di Eschilo è nella sezione Studi afroamericani. Quando lui e la rivale-giurata si uniscono contro la furberia di Fuck, lui le rinfaccia che Vita nel ghetto non è diverso. Lei spiega di aver fatto interviste, essersi documentata. Lui evoca il potenziale nero non sviluppato e lei lo folgora: «Il potenziale è ciò che le persone vedono quando pensano che ciò che è di fronte a loro non sia abbastanza buono».

E se Monk avesse un problema interiore col suo essere nero? Jefferson ragiona: «Non ci sono buoni e cattivi, non volevamo sembrare quelli che puntano il dito: questo è il modo giusto di essere neri». Nessun dubbio invece per i tre giurati bianchi che impongono il premio a Fuck: «Penso che dovremmo davvero ascoltare le voci nere in questo momento», dice una di loro, dopo aver troncato senza discutere le opinioni dei due colleghi afroamericani.

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