Cento Sicilie e una in cerca di riscatto

Alla mente le acchianò la poesia. Giovanna Casadio, amatissima dai lettori e da tutti noi di Repubblica, ha scritto con il cuore lèggiu e felice un romanzo di dettagli incantati. È un doppio intreccio turbolento di fimmini e di morte, i due tempi di una stessa famiglia, il 1963 nell’albergo delle prostitute al Nord, e il 1915 in Sicilia dentro il mistero di un avvelenamento.

Nel giorno dell’entrata dell’Italia nella Grande guerra il capitano Sebastiano, quello che stava meglio con senzacristi e schifazze e che Miriam per baciarlo si sollevava sulle punte dei piedi, a casa sua si accorse che per lui non c’era più spazio da sta banna. E fu il giorno della maharìa, che è il malocchio, il sortilegio, quando u iattu bianco potrebbe essere l’anima di qualcheduno – chi dici? ‘stu iattu? – e quando al capitano morto «posero a mano manca una conchiglia – che il mare lo abbia in gloria. E dall’altro lato gli misero a guardia un presepio d’avorio che era stato scolpito da Alberto Tipa. Perché si ricordasse da lassù di proteggere la famiglia».

Scrivo di Arrivammo a destinazione (Laurana Editore) con le parole del romanzo perché invece di raccontarvi il libro sto naufragando nel libro, come Gnazio Figuccia che solo navigando acquietava la follia, foddri a terra e sano in mare, dove si mandano a fondo i luoghi comuni e ci si libera dalla legge che ti vuole colpevole e dalla ragione che ti vuole folle. Com’era Gnazio, appunto, che in guerra aveva perso il braccio e perciò si cala i calzoni e si mette a cacare nel palazzo del governo: «Vi meritate solo questo». La trama, anzi le trame si scavano e si fondono. E il dialetto non è il siciliano strascicato minchia aaaah, ma non è nemmeno quello di Camilleri. È il siciliano vivo, siciliano in prova, dei tanti nuovi autori, un diluvio di giallisti e gialliste che hanno aggiunto ancora una Sicilia alle Cento Sicilie della famosa antologia di Gesualdo Bufalino e Nunzio Zago (la Nuova Italia 1993).

In più qui c’è quell’ambizione ai dettagli “rubata” ai grandi della letteratura, da Flaubert a Italo Calvino. E tutte le lezioni sono state imparate e infatti Nevio si calma con i versi di Pascoli e l’amore odora di sterco e di pesce. E c’è pure il ricordo di Sciascia nei capiddi di Clorinda che sono “inopportuni” perché rossi in Sicilia, gli stessi del Malpelo che era rosso come Verga, il suo autore. Anche Jules Renard, che scrisse Pel di Carota, era rosso, ma era allegro perché non era siciliano. E invece Gesù Cristo, racconta Sciascia in Occhio di capra, «nella tradizione popolare tirava al rosso», come del resto il suo traditore: «rosso, faccia di Giuda». E c’è un Giuda pure qui, ma è un Giuda innocente, il più innocente dei traditori.

Quello di Casadio è un raccontare di corsa che «gira come gira il mondo più veloce d’a machina», ma nelle nicchie e negli strapiombi, improvvisamente accapuna (nasconde) la notte e svela la sua natura delicata persino nell’avvilimento del sesso che, a sorpresa, non è brancatiano, ma è smarrimento e solitudine dei maschi e consapevolezza delle donne, anche se si aggiustano le calze sfilate e hanno gli occhi gonfi dopo mille amplessi che sono mille volte lo stesso amplesso. E Romilda ha le mani piene di vene e Nives è nominata a sbinnata perché è una povirazza che neppure il casino ha voluto più tenere quando s’ammalò di sifilide e poi vecchia diventò.

E più le avventure si fanno tempesta più i dettagli si fanno preziosi. La bella Rica che a Genova si soffia il naso nelle maniche della maglia è una soave pausa nella corsa del lettore mentre nel collo di velluto del magnaccia Saro Lametta, che dondola le gambe e promette «ti tagghiu ‘a faccia c’à lametta», ci sono tutti i magnaccia del mondo, e infatti Casadio ringrazia Saro Lametta che «ha voluto spostarsi qui da Uno per tutti di Gaetano Savatteri».

E più si va avanti e più il romanzo somiglia al pecoraio Tonio, «che strascica i piedi nei grossi scarponi impregnati di sterco, ma in una mano ha una fascedda di ricotta, per perdonanza, e nell’altra stringe una coffa che profuma di pane, origano, menta ed erba selvatica». Finché dolcemente anche il lettore si sente appartenere alla Sicilia di mare che sta sempre tra lo spitale e il porto, ma apre il petto in un respiro funnu.

Il libro

“Arrivammo a destinazione” di Giovanna Casadio, Laurana Editore, pagg. 216, euro 18

Condividi questo contenuto: