Nucleare iraniano, ma non solo: ecco perché Trump si scontra tanto spesso con i suoi 007

In grado di essere ricostruito “in pochi mesi”, come ha affermato un rapporto del Pentagono, o “completamente annientato”, come ha detto Donald Trump? La disputa sui danni causati dal bombardamento americano agli impianti nucleari in Iran ha fatto infuriare il presidente, spingendolo ad accusare ancora una volta di “fake news”, diffusione di notizie false, i media Usa che hanno ricevuto da fonti anonime dell’intelligence e quindi pubblicato il suddetto rapporto del Pentagono. Ma non è la prima volta che Trump respinge informazioni provenienti dai propri servizi segreti: il tycoon li ha sempre guardati con sospetto, perlomeno quando non dicono quello che lui vorrebbe sentire.

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La campagna 2016

Il primo caso di scontro fra Trump e l’intelligence risale alla sua campagna presidenziale del 2016, quando l’Fbi aprì un’inchiesta su presunte interferenze della Russia per favorire l’allora candidato repubblicano nella corsa alla Casa Bianca contro la democratica Hillary Clinton. La tesi era che il Cremlino, anche in virtù di possibili ricatti con cui pensava di controllare Trump se fosse stato eletto o comunque giudicandolo un leader con cui era più facile mettersi d’accordo, stesse facendo di tutto per manipolare le elezioni americane e farlo vincere. “Le agenzie della nostra intelligence non avrebbero mai dovuto permettere che queste fake news arrivassero all’opinione pubblica”, disse Trump all’epoca. È tutta un’operazione contro di me”, aggiunse, “viviamo forse nella Germania nazista?” L’indagine concluse che Mosca lo aveva aiutato ma non trovò le prove di un complotto con la sua partecipazione.

Il summit con Putin

Due anni più tardi, incontrando il presidente russo a un summit a Helsinki, Trump smentì apertamente le conclusioni dell’intelligence americana secondo cui hacker russi avevano comunque interferito nelle presidenziali Usa del 2016. “Ho fiducia nei nostri agenti segreti”, dichiarò il capo della Casa Bianca in una conferenza stampa, “ma oggi Putin mi ha dato una smentita estremamente forte e potente. Mi ha detto che non è stata la Russia a interferire. E io non vedo ragioni per cui lo avrebbe fatto”. Tra l’opinione dei suoi 007 e quella del leader del Cremlino, insomma, Trump preferiva credere a Putin.

Le polemiche con Tulsi Gabbard

Rieletto presidente lo scorso anno, il tycoon ha cercato di evitare dissidi del genere mettendo due fedelissimi ai vertici dei servizi segreti: Tulsi Gabbard, come direttrice della National Intelligence, l’organismo che coordina e sovraintende tutte le agenzie di spionaggio Usa, e John Ratcliffe a capo della Cia. Ma ci sono stati lo stesso problemi. In maggio, un rapporto della National Intelligence non ha rinvenuto probe di complicità fra il governo del Venezuela e la gang criminale Tren de Aragua, contraddicendo le dichiarazioni usate dalla Casa Bianca per giustificare la deportazione di immigrati clandestini. Dopo le proteste di Trump, Gabbard ha reagito licenziando due veterani dell’intelligence, accusandoli di opporsi per principio alla politica del presidente.

Una nuova polemica è scoppiata due settimane fa, quando Israele ha attaccato l’Iran, alla vigilia di una nuova sessione di negoziati fra Washington e Teheran, sostenendo che Teheran era vicina a possedere armi nucleari. La direttrice della National Intelligence in persona aveva testimoniato in marzo davanti al Congresso, il Parlamento americano, che secondo le agenzie di spionaggio Usa l’Iran non stava perseguendo attivamente la creazione di armi atomiche, ma Trump ha liquidato così la questione: “Non mi interessa cosa dice Tulsi Gabbard, ha ragione Israele”. Il primo segnale che il presidente, fino a quel momento contrario all’uso della forza per risolvere il dilemma, stava cambiando idea e, davanti ai successi dell’offensiva israeliana, era disponibile ad appoggiare militarmente Gerusalemme. Tra voci di una sua possibile destituzione dall’incarico, Gabbard ha accusato i media di averla citata “fuori contesto”, sottolineando che nelle sue deposizioni al Congresso anche lei aveva detto che l’uranio arricchito messo da parte da Teheran andava oltre quello che serve per gli scopi del nucleare civile.

La controversia sul bombardamento

Infine è arrivata la polemica di questi giorni, con il rapporto del Pentagono fatto pervenire ad alcuni giornali americani in base al quale l’intelligence dubitava che il programma nucleare iraniano fosse stato danneggiato in modo irreparabile dai bombardamenti Usa. Un’opinione attribuiti dalla Casa Bianca a funzionari di basso grado che si oppongono all’amministrazione Trump e ora smentita dal capo della Cia, secondo il quale ci vorranno “anni” prima che l’Iran possa tornare al livello nucleare precedente il raid con le superbombe americane. Lo stesso presidente è intervenuto nella diatriba, assicurando che il programma nucleare di Teheran è stato “annientato” e affermando che Israele “ha agenti sul terreno che sono andati a vedere sul posto i danni causati dalle nostre bombe e confermano questo giudizio”. Una conferenza stampa e un rapporto riservato a membri del Congresso sono in programma per smentire ulteriormente il rapporto del Pentagono.

Larry Pfeiffer, un ex-agente della Cia che ha lavorato a lungo in passato alla Casa Bianca, dice all’Associated Press: “I membri dell’intelligence cercano di descrivere il mondo com’è, mentre i leader politici preferiscono sentirlo descrivere come loro lo vogliono. Non penso di avere mai visto un presidente che respinge i rapporti dello spionaggio quanto Trump”. Frank Montoya, un ex-agente dell’Fbi, commenta che l’atteggiamento di Trump “demoralizza gli agenti impegnati a fare il proprio mestiere”. Quanto ai danni effettivi provocati dal bombardamento americano al programma nucleare degli ayatollah, l’ex-ambasciatore Usa John Negroponte, che fu direttore della National Intelligence nella Casa Bianca di George W. Bush, avverte che ci vorrà più tempo per valutarli: “In queste cose occorre avere pazienza. Bisogna evitare la tentazione di dare giudizi affrettati”.

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