Luca Ward: “Il prete a messa mi chiese il Gladiatore. Ma l’inferno è stato la povertà da bambino”

“Il talento di essere tutti e nessuno”: lei porta la sua voce e il suo show in giro per l’Italia. Il 6 agosto a La Spezia estate festival. Partirei da qui: chi è Luca Ward?
«Uno, nessuno e centomila. Un padre, un marito, un uomo, un cittadino italiano. Vivo in questo paese, pago le tasse – perché io le pago, al contrario di molti – e il titolo, il talento di essere tutti e nessuno, si colloca nell’area del mio lavoro. Sono forse uno dei pochi in Italia che, come erano gli attori di un tempo, lavora su tanti campi. Faccio radio, televisione, cinema – poco, per scelta – doppiaggio, teatro, musical, prosa, documentari: ho imparato a fare tutto. Me lo dicevano i grandi attori dell’epoca: “Impara a fare tutto, che un piatto di minestra lo porti a casa”. Infatti non ho periodi di fermo nella mia carriera. Difficile trovare uno che, come me, a 65 anni ne ha 62 di attività continuativa”.

Torniamo a quando tutto è iniziato.
“Nel 1963, con i grandi sceneggiati della Rai. Il primo è stato Demetrio Pianelli di Sandro Bolchi, facevo uno dei due figli di Paolo Stoppa. Avevo tre anni, ma ricordo tutto perfettamente perché ero affascinato da quel mondo. Mio padre e mia madre erano due attori, anche due dei miei nonni. E poi c’era Carlo Romano, che era la voce di Jerry Lewis, di Fernandel. Ero incuriosito. Ricordo via Teulada, Bolchi, che vedevo come una montagna di dolcezza. E Stoppa, che tutti dicevano fosse cattivissimo, invece con noi era stupendo. Passavo un sacco di tempo sulle sue ginocchia, mi portava al bar della Rai a prendere il gelato. Ne mangiavo sette, otto. Gli dicevo: “Andiamo a prendere un gelato?” e lui era contento perché staccava dallo stress del set. Altri bei ricordi: Il Conte di Montecristo, girato a Ponza con Andrea Giordana. Ero più grande. La freccia nera, girata a Torino”.

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Con alcuni attori c’è maggiore sintonia nel doppiarli?
“Sì. Il mio collega, famoso, Claudio Sorrentino mi chiese di doppiare al suo posto Mel Gibson in un film, mi disse “ti stimo e ti voglio bene, e so che non me lo freghi”. Ero onorato, ma fu difficile perché ero abituato a sentirlo con la voce di Claudio, e con me Mel Gibson non c’entrava niente, francamente. Però gli altri attori che doppio sono tutti diversi tra loro, ma straordinari. Samuel Jackson è inarrivabile. Con Russell Crowe siamo uguali, mi scelse per questo. Quando arrivò la mail per Il gladiatore, Ridley Scott scrisse nella nota: “Russell Crowe ha notato che il modo di recitare di questo attore, Ward, è simile al suo””.
Nel suo spettacolo spiega cosa è il doppiaggio.
“Certo, perché il pubblico sa che esiste ma non lo conosce davvero. Negli anni 20, quando è iniziato, gli attori non potevano nemmeno dire che doppiavano gli attori stranieri. Negli anni 40-50, gli italiani pensavano che John Wayne parlasse italiano. E’ un lavoro che richiede una preparazione gigantesca. Noi entriamo in sala e non sappiamo cosa facciamo. Al massimo ti dicono “guarda, è un soldato romano, e alla fine muore”. Nello spettacolo lo racconto con aneddoti divertenti, la gente si ammazza dalle risate. E poi prendo in giro anche il mio mestiere di attore. Non mi sono mai preso sul serio, non lo facevano i grandi: Tognazzi, Gassman, Adolfo Celi, Alberto Lupo. Era bellissimo lavorare con loro e quando si andava a cena, non parlavano mai di lavoro né male di qualcuno”.

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Il ruolo del doppiatore, anche rispetto al futuro?
“Oggi siamo in difficoltà. Soprattutto i giovani. Io lavoravo con Ferruccio Amendola, Pino Locchi, Rinaldi, la Dimeo, la Savagnone. Lì imparavi. Oggi i ragazzi vanno in sala da soli, poverini. E poi l’intelligenza artificiale, che non ha un cuore. Per il doppiaggio vogliono cominciare dai cartoni animati. Perché i bambini non hanno gli strumenti per capire se quella vocina è meccanica. Anche noi facciamo voci incredibili, sembriamo macchinette a volte. E così intanto li addestrano, li indottrinano. È criminale. Fai fare Pulp fiction all’intelligenza artificiale, poi vediamo come risponde il pubblico. Non sono d’accordo”.
Un grande e un piccolo sogno?
“Vedere i miei figli con le tempie grigie. E che spariscano armi e guerre. I miei ragazzi vivono con l’ansia. Ogni volta che al telegiornale parlano di possibili guerre nucleari, mia figlia viene da me e dice “papà, ma scoppia la guerra atomica?”. Poi non credo, certo, che scoppierà la guerra atomica, quale pazzo premerebbe il pulsante? Però il mio grande sogno è farla finita con tutte queste guerre”.
Al mio segnale scatenate la pace?
“Ma magari. Mi ha dato una bella idea. Lo voglio dire alla fine del mio spettacolo”.

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