Ed Sullivan, lo showman che cambiò l’America una canzone alla volta

New York – L’uomo che sdoganò i Beatles in America, invitandoli nel suo leggendario studio sulla Broadway fra orde di ragazzine urlanti, proprio mentre era in atto una campagna contro di loro perché John Lennon aveva affermato che la sua band «era più popolare di Gesù Cristo», ha un altro merito che finora nessuno gli aveva riconosciuto: quello di aver desegregato la tv statunitense. Sì, perché Ed Sullivan, conduttore dell’omonimo show che dal 1948 al 1971 fu il più seguito della domenica sera, negli anni difficili delle battaglie per i diritti civili degli afroamericani invitò ostinatamente, puntata dopo puntata, musicisti neri invisi a sponsor e direttori di rete. A raccontare questo peculiarissimo aspetto del fenomenale conduttore capace d’incollare settimanalmente al televisore 50 milioni di americani, è un documentario appena approdato su Netflix senza troppa pubblicità. S’intitola Sunday Best ed è firmato dall’esperto di cultura pop Sacha Jenkins, scomparso un mese fa a 53 anni.

Che storia, quella dell’ex giornalista sportivo d’origine irlandese, fisico prestante e faccia di pietra, approdato per caso in quella tv di cui fu pioniere: e icona. Nel 1948 gli proposero un programma d’intrattenimento tutto da inventare. E per farlo, a dispetto dei canoni razzisti dell’epoca, andò a cercare artisti nei teatri di varietà di quell’Harlem dov’era nato e cresciuto senza un soldo. Convinto che solo nei bassifondi si trovasse quel che davvero piaceva alla gente: pure a quella comodamente seduta nel salotto di casa. Mai gli importò del colore della pelle dei suoi artisti. Anzi, le critiche furibonde dei conservatori e i costanti tentativi di censurare i suoi ospiti lo resero conscio dell’impatto che le sue scelte avevano sulla società. Sempre contro corrente, fu il primo a portare in tv il mitico Nat King Cole: invitandolo all’indomani dell’agguato teso dai suprematisti bianchi che nel 1956 lo buttarono giù dal palco di Birmingham, Alabama. Nel suo show Sullivan volle a tutti i costi pure Harry Belafonte: popolarissimo grazie al suo Calypso, ma inviso ai dirigenti televisivi per l’impegno politico al fianco di Martin Luther King. La Cbc gli intimò di non farlo. E lui se ne fregò nonostante le minacce degli inserzionisti. «Fu determinante» racconta Belafonte, ripreso prima di morire: «Da allora tutti guardarono alla nostra causa con occhi diversi».

Nel programma che più d’ogni altro spinse gli americani a imbracciare la chitarra — e dove esordì pure un giovanissimo Elvis Presley, anche lui osteggiato perché «si muoveva come un negro» come scrivevano i giornali dell’epoca — le sue scoperte hanno letteralmente scritto la storia della musica nera. Fu proprio Sullivan a scommettere sul tredicenne cieco Stevie Wonder e sul talento di una giovanissima Nina Simone.

Facendo debuttare in tv pure gli artisti di Motown, l’iconica etichetta di Detroit che lanciò fra gli altri Le Supremes e i Jackson Five, Diana Ross, i Temptations e quello Smokey Robinson, voce narrante del documentario insieme a Belafonte e al produttore Berry Gordy. A quegli artisti, Sullivan non offrì solo un palco straordinario: ma l’opportunità di parlare al pubblico americano quando più li si voleva far tacere. Una rivoluzione che ha contribuito a cambiare l’America: una canzone alla volta.

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