Scottarsi la pelle è un messaggio. E racconta il malessere dei giovani
C’era un tempo in cui le scottature solari erano incidenti di percorso, fastidi da evitare, campanelli d’allarme del corpo che ci chiedeva una tregua. Oggi, grazie (o meglio, a causa) di TikTok, diventano sfide. Diventano contenuto. Il nuovo trend si chiama “Sunburn Challenge”: ragazzi e ragazze si espongono volutamente al sole senza protezione solare, per ottenere scottature evidenti, contorni di costumi marcati, segni di mani o disegni lasciati apposta sulla pelle. Il risultato? Un corpo arrossato che diventa virale. E una ferita che diventa estetica.
Ma cosa c’è davvero dietro tutto questo? Non è solo una scottatura: è un messaggio. Scottarsi non è mai una scelta neutra. Lo sa bene ogni medico che ogni anno ricorda come un’esposizione eccessiva al sole aumenti drasticamente il rischio di tumori cutanei, in particolare il melanoma. Ma non è solo la pelle a soffrire. È il messaggio che ci dovrebbe far paura: “Se soffro, se mi rovino, se mi spingo oltre, allora valgo di più. Allora mi vedono”. Perché in fondo questo trend non parla solo di sole. Parla di visibilità, di approvazione sociale, di fragilità esistenziale.
Meno alcol, meno fumo, più solitudine digitale. E se il nuovo sballo fosse l’algoritmo?
Oggi il corpo è diventato un palcoscenico. Ogni bruciatura, ogni arrossamento, ogni limite superato, è uno spettacolo da esibire. E il dolore, se condiviso online, diventa improvvisamente accettabile. Addirittura ammirato.
Il dolore “estetizzato”
La Sunburn Challenge è l’ennesima espressione di un’epoca che ha trasformato il dolore in contenuto. Non più qualcosa da evitare, ma qualcosa da “indossare” con orgoglio. Non c’è più pudore. Non c’è più senso del limite. Ci sono giovani che scelgono di farsi male per appartenere, per piacere, per essere notati. E qui non è solo la dermatologia a dover intervenire. È la psicologia. È la cultura. È l’adulto che deve svegliarsi.
La fragilità che urla attraverso la pelle Quando un adolescente decide volontariamente di farsi del male per ottenere un effetto visivo e condividerlo, non è libertà, è richiesta d’aiuto. Una richiesta camuffata da sfida, da gioco, da trend. Ma sempre richiesta resta. È il fallimento di una società che ha insegnato a mostrarsi, non a sentirsi. Che ha educato al like, non alla cura. Che ha sdoganato il dolore, rendendolo virale.
ARCHIVIO: Gli articoli di Giuseppe Lavenia
Educare oggi è insegnare a proteggersi
La protezione solare non è solo un atto medico. È un gesto simbolico. È dire al proprio corpo: “Ti rispetto”. È insegna ai nostri figli che non tutto va mostrato, che non tutto va fatto, che non tutto va accettato solo perché piace agli altri. Noi adulti dobbiamo tornare a essere filtro. Dobbiamo restituire dignità al corpo come luogo di vita, non come oggetto di spettacolo.
Il sole come metafora
Il sole non è il problema. Il problema è l’idea che per esistere serva lasciarsi bruciare. Che per piacere agli altri si debba passare dal dolore. E allora la sfida vera, oggi, è insegnare ai ragazzi che non devono marchiare la pelle per sentirsi amati. Che non serve scottarsi per farsi notare. Che esistere davvero è proteggersi. Anche quando tutti, intorno, sembrano dire il contrario.
Giuseppe Lavenia, psicologo e psicoterapeuta, è presidente Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, GAP e Cyberbullismo “Di.Te”, docente di Psicologia delle Dipendenze Tecnologiche Università E-Campus e docente di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni Università Politecnica delle Marche
Condividi questo contenuto: