Trump spinge su fossili e dazi, rinnovabili in affanno
Sei mesi dopo l’inizio del secondo mandato Trump, la politica energetica e commerciale degli Stati Uniti sta già producendo effetti significativi. Secondo il terzo rapporto di Rystad Energy, dedicato alle misure energetiche dell’amministrazione Usa, l’approccio politico si basa su due pilastri: da un lato tariffe punitive su metalli, semiconduttori ed energia; dall’altro il maxi-pacchetto normativo One Big Beautiful Bill, che privilegia fossili e nucleare a scapito delle rinnovabili. L’impatto macroeconomico iniziale è stato meno traumatico del previsto: inflazione stabile (2,7% a luglio), crescita del Pil Usa al 3% nel secondo trimestre e mercati azionari in rialzo. Anche le entrate doganali sono esplose, con dazi che ormai pesano per oltre il 5% delle entrate federali. Ma il quadro di lungo periodo resta incerto: le industrie rischiano di abituarsi alla protezione tariffaria, mentre partner globali valutano contromisure.
Sul fronte commerciale, le mosse più pesanti riguardano l’aumento al 50% dei dazi su acciaio e alluminio e l’introduzione di tariffe analoghe sul rame non raffinato. L’annuncio iniziale aveva spinto i prezzi del rame ai massimi, salvo poi ridimensionarsi dopo che la Casa Bianca ha chiarito l’esenzione per il rame raffinato (circa il 70% delle importazioni Usa). Forte impatto anche sull’automotive, con margini compressi per gli assemblatori americani. La partita con la Cina resta la più delicata. È stato concordato un “cessate il fuoco” di 90 giorni sulle esportazioni di magneti da terre rare, ma l’accordo manca di meccanismi vincolanti e le forniture restano vulnerabili. Questi materiali sono fondamentali per turbine eoliche, veicoli elettrici e applicazioni militari, rendendo gli Usa esposti al rischio di nuove interruzioni.
Sul fronte europeo, emerge un nodo cruciale: nel 2030 la domanda di gas dei Paesi Ue (341 miliardi di mc) potrà assorbire al massimo il 60% del Gnl statunitense non contrattualizzato. Ciò significa che il target di 750 miliardi di dollari di export energetico verso l’Europa, più volte evocato dalla Casa Bianca, non è realistico senza aumentare drasticamente le vendite di petrolio e prodotti raffinati. Anche l’India è al centro della strategia americana: da un lato è il primo mercato di export indiano colpito dai dazi Usa; dall’altro è diventata il principale acquirente di greggio russo a prezzi scontati. Washington punta a usare la leva tariffaria per spingere Nuova Delhi a ridurre gli acquisti da Mosca e incrementare le importazioni di energia statunitense. Per il Brasile, i dazi al 50% annunciati a luglio appaiono più politici che economici: quasi il 40% delle esportazioni brasiliane (greggio, aerei, succhi d’arancia, rame raffinato) è stato esentato, riducendo l’impatto effettivo.

Sul piano interno, la riforma fiscale contenuta nel One Big Beautiful Bill Act (Obbba) ridisegna gli incentivi: via libera a nucleare, geotermico e Ccs; stop progressivo ai crediti per solare, eolico ed EV, con scadenze anticipate già dal 2026. Contestualmente, sono state varate restrizioni severissime sui contenuti da Foreign Entities of Concern (Cina, Russia, Iran, Corea del Nord), che mettono a rischio la filiera delle rinnovabili e delle batterie. Sul fronte fossili, l’Obbba ha rilanciato le concessioni su terreni federali e offshore, con la più ampia offerta di lotti petroliferi e gasiferi degli ultimi decenni. L’obiettivo è ridurre costi di break-even e rafforzare la produzione interna.
Infine, l’analisi di Rystad sottolinea un doppio messaggio: nel breve Trump ha ottenuto “vittorie facili” — crescita solida, mercati stabili, dazi redditizi — ma la sostenibilità di lungo periodo dipende da come reagiranno i partner commerciali e dalla capacità dell’industria americana di reggere senza incentivi alle rinnovabili.
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