Silvio Orlando: “Da Paolo Virzì a Nanni Moretti, i veri maestri insegnano ad amare. Il successo è un’acqua che non disseta”
Silvio Orlando, lei è il filo rosso che attraversa autori e decenni di un certo cinema italiano. Nanni Moretti, e poi Paolo Virzì, l’hanno voluta al centro di due film bilancio dei propri percorsi artistici, Il sol dell’avvenire e, ora, Un altro Ferragosto. E poi Sorrentino, Andò, Luchetti, Milani, Piccioni, Ferrario, Mazzacurati, Di Costanzo, Grimaldi, Avati, Labate, Ferrario, Veronesi…
«Ho iniziato in un periodo in cui il cinema italiano ha avuto un risveglio. Gli Ottanta non avevano dato granché a livello del nostro cinema, nei primi anni Novanta c’è stato l’avvento di registi importanti. Cineasti che volevano dire la loro sulla vita civile, sulla politica e non solo fare intrattenimento comico. E sono stato fortunato, perché questi registi giovani attingevano al patrimonio della comicità e io facevo parte della schiera dei comici emergenti. La comicità era vista seriamente, da tutti, e molti comici sono riusciti a entrare nel cinema in questo modo, dando una scossa di vitalità e un pizzico di follia in più, che serviva. Ho lavorato con Moretti, Luchetti, Virzi. Le nuove generazioni hanno i loro piccoli divi, tendono a cancellare il passato, ma nei decenni ho intercettato anche qualcuno tra i nuovi autori».
Con Moretti e Virzì avete chiuso un cerchio.
«Sono film che cercano di fare il punto della situazione, in un arco di collaborazione, ma anche di vita di questi autori. Il 2022 per me è stato bello, ho fatto Ariaferma, Il bambino nascosto, poi ho voluto partecipare solo a queste due cose, per chiudere anch’io, da attore, come loro hanno fatto da registi, un arco di vita. Con Paolo e Nanni ho fatto cose importanti, sono stato contento di esserci».
Sono stati fondamentali per il suo percorso.
«Con Nanni ho realizzato per la prima volta il sogno. Ricordo Il Portaborse a Cannes, un film da protagonista che ha messo in moto tutto. Con Paolo Ferie d’agosto a Ventotene è stato un momento delirante, vivevo in un clima che non ho mai più ritrovato: cinema e vita corrispondevano. Due due mesi su un’isola, trentenni senza pensieri con un regista anarcoide come Paolo. Di solito i film sono grumi di angoscia, nessuno si sente all’altezza di quel che fa. Paolo è stato sciamanico a tenere tutti i fili dei racconti, ma si vede l’anarchia, poteva essere un film anni Settanta. Paolo mette su queste comuni di gioia collettiva, dove lui è monarca assoluto e decide i destini dei personaggi».
Chi eravate lei e Sandro Molino, il personaggio che interpreta?
«Lui il tipico intellettuale anaffettivo che capisce le cose del mondo ma non le sente, non riesce a vibrare insieme agli altri. Si rifugia in formule tutte sue, letture, guarda gli altri dall’alto, li giudica. È stato il destino della sinistra, la deriva di certi intellettuali che hanno letto troppo e amato troppo poco. Gramsci parlava della connessione sentimentale con il mondo, è venuta meno. Il mondo cambiava e non riuscivano a capire cosa succedeva e si rifugiavano in difesa astratta di valori, una memoria che diventava sterile. E poi non riesce a capire quelli che arrivano, perché quello che ha fatto Berlusconi con la sua discesa in campo, oltre a vincere le elezioni, è stata di dare voce alla maggioranza silenziosa e slogan e contenuti e formule da ripetere a macchinetta. L’idea di andare sotto con il venditore Mazzalupi in un dibattito pubblico, come succedeva era uno shock terrificante. La minoranza parlava tanto, esprimeva opinioni, poi è diventata addirittura silenziosa e quelli non hanno più smesso di parlare. Alla fine si sancisce la fine di una funzione storica della sinistra».
Paolo Virzì gira il seguito di ‘Ferie d’agosto’: sull’isola tornano i protagonisti di allora
Questo nuovo film è ancor più doloroso.
«Non immagino film più diversi. Nel gruppo della sinistra si è persa di vista ogni possibilità, l’ideologia e tutte le cose che ci hanno fatto vibrare sono diventate una favola da raccontare a un bambino di dieci anni. Solo questo salva il mio personaggio nelle sue ultime ore, gli da un senso: la favoletta al bambino, che si spera sappia farne qualcosa di più costruttivo. Questo film è politico in senso lato, racconta il vuoto esistenziale che accomuna tutti. È amaro perché nel primo film almeno i Mazzalupi importavano vitalità, voglia di fare, empatia. Oggi anche loro avvertono, pur non sapendo esprimerlo, un vuoto interiore profondo».
Com’è cambiato Virzi?
«Ho ritrovato quel suo cervello che mette insieme mille cose, aprendo scenari. Paolo si è femminilizzato, ha un tocco poetico in più, malinconico».
Un autore con cui lavorerebbe?
«Tanti. Bellocchio e Garrone, ma forse non mi vedono nei loro immaginari».
I suoi registi si parlano anche attraverso di lei?
«Essendo andato nelle varie isole mi arrivano segnali. Virzì è generoso nel gioire dei successi altrui, Sorrentino lo sento meno, con Andò ci frequentiamo molto. Con Nanni il rapporto non è di totale complicità, per me è “nannimoretti” tutto attaccato, ma ci teniamo d’occhio. Era venuto alle prove di Ciarlatani in estate, doveva debuttare con la pièce di Ginzburg, che ora porta a Roma. Sceglie gli attori tra gli amici o a teatro, mi volle per Palombella rossa vedendomi in Comedians. Ai tempi di Ferie d’agosto ero reduce dagli incassi di La scuola. L’idea del film nacque dalla gita con Paolo a Ginostra».
È a teatro con Ciarlatani di Pablo Ramon.
«Con Javier Camara siamo amici dai tempi di The young pope. L’ho visto in Spagna in questo spettacolo, mi ha conquistato l’alternanza di toni scanzonati e profondi, la struttura libera, bella da proporre, nel ristagno dei repertori teatrali in Italia».
Chi sono i ciarlatani?
«Tutti noi, quando ci diciamo le bugie nel piccolo teatrino interiore, perdendo di vista il senso della vita. Siamo tutti sull’orlo di un fallimento, eppure lo rimandiamo, non lo vogliamo vedere, senza capire che è il modo di crescere, tornare a un grado più umano di vedere il mondo, gli altri. Arrivare all’unica cosa che ha un senso per l’essere umano che è l’umiltà, con cui sbloccare i grovigli e non ripetere gli stessi errori».
Mai sognato i David di Donatello, come nello spettacolo?
«Forse qualche incubo. Candidato dodici volte, ne ho vinti tre, il primo già avanti con l’età. C’era la beffa continua di questa cosa: te lo diamo o non te lo diamo… I premi sono anche un gioco tragico. Vinci e ti pare di mettere un punto definitivo nella carriera: in quel momento sei il più bravo di tutti. Infantile, ma ti fa sentire parte di una famiglia, scacciano l’insicurezza del mestiere».
Tra successo e arte?
«Il successo è neutro, un’acqua che non disseta, se non è frutto di un percorso di vita. Ho iniziato con le tv private facendo il comico, avrò avuto un primo grado di successo, ma non era quello per cui avevo iniziato fare il mio lavoro».
Cosa vede davanti a sé?
«Vorrei coltivare ancor di più la dimensione del teatro, che mi corrisponde. Sento che entro in intimità con il pubblico in modo semplice e giusto. Al cinema non sono arrivato a quella purezza lì, una commedia melanconica che mi definisce a teatro non la ritrovo, nel cinema che mi chiedono».
Ha una compagna importante.
«È la vita. Condividere passi, respiro, pensieri. Non farei nulla senza questa presenza, questo cercare insieme le cose da fare, domani o tra mezz’ora».
Condividi questo contenuto: