“Il mago del Cremlino”: dalla rabbia al potere, l’ascesa del giovane Putin strappa applausi al Lido

VENEZIA – C’è una scena de Il mago del Cremlino in cui Vadim Baranov difende la sua idea di celebrare la maestosità della Russia con il sottofondo della musica dei Daft Punk, per la grande apertura delle Olimpiadi di Sochi. Lo fa dicendo che l’unico linguaggio che il potere ha per parlare al popolo è quello del “kitsch”. E Putin acconsente. Ha scelto il postmoderno per consolidare un sistema di violenza e sopraffazione. Ha usato, per questo, prima la tv di Stato sottratta all’oligarca Boris Berezovsky, poi le schegge più estremiste della società russa, arruolate alla causa una a una, il nazional bolscevico ?duard Limonov compreso. Infine, internet, l’algoritmo inventato dagli americani e manipolato dai russi non per convincere, non per fare politica. Semplicemente — la scena in cui la teoria del fil di ferro viene illustrata è una delle più attuali del film — provocando l’impazzimento dell’Occidente: no vax, antiabortisti, proabortisti, razzisti. Capire cosa fa clic e moltiplicarlo. Torcere la realtà in un senso, poi nell’altro, fino a mandarla in pezzi. “Internet traccia tutto. E se ci scoprono?”, chiede a Baranov Evgenij Prigožin anni prima di morire in un misterioso incidente aereo tra Mosca e San Pietroburgo: “Meglio. Più potere pensano che abbiamo, più ce ne danno”.

A Venezia, nel film del francese Olivier Assayas, girato in inglese perché pensato per il grande pubblico, Vladimir Putin ha sorprendentemente il volto di Jude Law. E funziona. Ieri, alla proiezione al Lido, 12 minuti di applausi. Lo sguardo ha un’ironia feroce, il parrucchino lo rende perfino somigliante a una versione giovane dello zar. Baranov, interpretato da Paul Dano, è il consigliere machiavellico che tutto sa della Russia del passato, grazie ai libri ereditati dal nonno. Che tutto riesce a manipolare grazie a una profonda conoscenza dell’anima russa. E della modernità assaporata agli inizi degli anni 90, quando caduto il muro tutto sembrava possibile. Tra gli sceneggiatori c’è Emmanuel Carrère che si concede anche un cameo, e insieme a Assayas ha cambiato pochissimo del romanzo di Giuliano da Empoli. Pubblicato in Italia da Mondadori, in Francia un caso letterario da un milione di copie.

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La trasposizione è letteraria e fedele. Tanta voce fuori campo, stile teatrale, finale a sorpresa. Da Empoli si era ispirato — per questo Rasputin moderno — a Vladislav Surkov. Vero consigliere di Putin fino a un misterioso “ritiro dalle scene” nel 2020. Baranov, “il mago”, a colloquio con un ricercatore americano con cui ha in comune l’ossessione per lo scrittore Evgenij Zamjatin, è l’espediente narrativo che consente di mostrare l’ascesa dell’ex capo del Kgb per quella che è stata: la costruzione di un sistema verticale che cancellasse l’orizzontalità anarchica dell’epoca di Eltsin (magistrale la scena in cui si biasima il bicchiere di latte bevuto in pubblico). Quella in cui gli oligarchi facevano affari e pretendevano di muovere la politica. In questo, le parabole di Berezovsky e di Michail Chodorkovskij, amico di gioventù di Baranov-Surkov rappresentato con un altro nome e come personaggio di finzione nel film, mostrano ciò che la cronaca ha svelato mille volte: “In Unione sovietica eravamo tutti in pericolo e nella nuova Russia siamo tutti in pericolo”.

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Non è sufficiente essere vicini al potere, per non bruciarsi. Bastano un passo falso, una pretesa di troppo e si rischia di fare la fine di Berezovsky, prima esiliato poi misteriosamente suicida nella sua villa di Ascot. O di Chodorkovskij, fatto arrestare e mandato in Siberia per anni.

Un passaggio chiave per capire da che punto di vista il film di Assayas racconta Putin, è quando il presidente spiega a Baranov che la rabbia è un dato strutturale. Non si può guarire, bisogna indirizzarla. E su chi se non su qualcuno che si è arricchito all’inverosimile con le risorse russe? “Stalin non era amato nonostante i massacri, ma per i massacri. Perché puniva i ladri, i truffatori, i nemici. Sai cosa fece quando i treni cominciarono ad accumulare ritardi? Fece giustiziare il presidente delle ferrovie accusandolo di sabotaggio. Le cose non andarono meglio, anzi peggiorarono, ma il popolo aveva un colpevole. Non c’è più feroce dittatore del popolo”.

Hanno chiesto a Law se temesse ripercussioni per la scelta di portare a Venezia il volto feroce dello zar. “Spero di non essere ingenuo, ma no”. Quella raccontata è una storia universale, dice Assayas. Nel film, e nel romanzo, ci sono le radici della guerra in Ucraina: i sabotatori mandati dai russi in Crimea e in Donbass, ma anche la convinzione ripetuta da Baranov al suo interlocutore americano che dietro le proteste di piazza Maidan ci fossero la Cia, il dipartimento di Stato americano e Berezovsky. C’è la rabbia di Putin dopo un G20: “Mi trattano come fossi il presidente della Finlandia!”. C’è una volontà di potenza e di ritorno ai tempi dell’impero declinata nell’invenzione della “democrazia sovrana”. Che, come dice a Baranov lo scacchista Kasparov, “sta alla democrazia come la sedia elettrica sta a una sedia”. «Volevo raccontare l’alleanza tra il sistema premoderno legato alla forza bruta e alla violenza, rappresentato da Putin, con l’avanguardia teatrale postmoderna di Baranov. Il modello originale di tante cose venute dopo», dice da Empoli. Le cose “terribilmente pericolose”, per dirla con Assayas, che stiamo vivendo oggi. O anche, come dice Jeffrey Wright, che interpreta il ricercatore di Yale, «la scomparsa dell’idea utopica che possiamo essere migliori».

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