La regista Ben Hania: “Nella voce di Hind uccisa a 6 anni c’è quella di Gaza ridotta al silenzio”

La voce di Hind Rajab è la voce di Gaza, la voce di una bambina di sei anni intrappolata in macchina a Gaza insieme ai cadaveri della sua famiglia che chiede di essere salvata, intorno a lei i tank dell’esercito israeliano. Il film in concorso, firmato dalla regista tunisina Kaouther Ben Hania ricostruisce la storia vera di Hind, utilizzando gli audio originali delle telefonate di quel 29 gennaio 2024.

Sasha Kilani, l’attrice che interpreta l’operatrice al telefono con Hind, lancia in conferenza un appello “a nome degli attori e di tutta la squadra del film, chiediamo: non ne abbiamo abbastanza della deumanizzazione, della distruzione, dell’occupazione di Gaza? Questo film non è un’opinione ma è ancorato a salde radici nella realtà. La storia porta il peso di un intero popolo, la voce di Hind è solo è una delle 10 mila voci che appartengono ai bambini uccisi in due anni a Gaza (secondo l’Unicef ad agosto erano 18 mila ndr). Ed è la voce di ogni figlia di ogni figlio che aveva il diritto di vivere di sognare di esistere con dignità. Tutto questo è stato portato via di fronte ad occhi indifferenti. Dietro ad ogni numero c’è una storia che non avuto l’opportunità di essere raccontata. Hind grida “salvatemi “e la domanda vera è come è stato possibile lasciare che questa bambina ci chiedesse di essere salvata e lasciarla morire? Nessuno può vivere in pace quando i bambini ci chiedono di essere salvati. Dobbiamo chiedere giustizia per l’umanità intera per il futuro di ogni bambino. Adesso basta”.

Abbiamo intervistato la regista.

In questi giorni si è molto parlato di Gaza, qui al festival, anche per via della manifestazione che ha avuto luogo. Poi è arrivato il suo film, che si inserisce proprio in questo contesto, per rendere le persone, e in particolare il pubblico del festival, più consapevoli di quella situazione. Qual è il ruolo dei social media? E, in particolare, qual è il ruolo del cinema nel far conoscere ciò che accade e sensibilizzare le persone?

“I social media hanno un ruolo diverso dal cinema, perché i social servono a dimenticare. Sono come un flusso: tanta informazione, troppa, che alla fine diventa nessuna informazione. Il cinema è un’altra cosa. Nel cinema si mette a fuoco una singola storia e, attraverso quella, si crea empatia. Ed è questo un sentimento che come umanità dobbiamo sviluppare, coltivare: l’empatia, la capacità di comprendere l’altro. Il cinema può fare questo. È il motivo per cui ho fatto questo film, perché quando le persone non conoscono storie o non hanno accesso all’alterità – ai palestinesi, per esempio – quando non ascoltano voci palestinesi, per loro non esistono. Il cinema può invece dare questa possibilità: può dirti che questa bambina esiste, ascolta la sua voce. È il senso stesso della mia domanda”.

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La voce di Hind Rajab è la voce di Gaza?

“Sì. Esattamente. Ho avuto la stessa sensazione quando ho sentito per la prima volta la voce di Hind Rajab. Per me era davvero la voce di Gaza che chiedeva aiuto, ma nessuno poteva intervenire. La sua zona era assediata da carri armati e da una forza militare potentissima. Gaza è così. Lì c’è pulizia etnica, c’è genocidio. Ma nessuno poteva aiutare, ed è qualcosa di completamente folle. Credo che abbia ragione quando dice che Hind Rajab è diventata qualcosa di emblematico. Abbiamo visto, per esempio, alla Columbia University che gli studenti volevano intitolare una sala a suo nome. Quello che le è accaduto è stato così crudele che è diventata, purtroppo, dico purtroppo perché credo avrebbe preferito vivere piuttosto che diventare un’icona, l’icona di Gaza”.

La difficoltà di questo film è stata gestire un materiale umano così potente, cercando di bilanciare i vari elementi per renderlo il più autentico possibile, ma senza dimenticare che si tratta comunque di cinema. È così?

“Sì. Per me era fondamentale perché avevo un documento: la registrazione. Al cuore del film c’è proprio questo: ho ricevuto dalla Mezzaluna rossa la registrazione, la voce di Hind Rajab, e ho parlato con i loro operatori. Il mio compito, come regista, era trovare la forma cinematografica per custodire e presentare quella registrazione. Il cinema non è raccontare a caso, è una questione di punto di vista, di scegliere un angolo. Non si può narrare in modo casuale. Per me la prospettiva dei lavoratori della Mezzaluna era quella che meglio amplificava il mio punto di vista, la mia sensazione di impotenza. E le persone nel mondo hanno provato la stessa cosa. E parlando con Hind Rajab, questa sensazione si amplificava ancora di più. Perciò era importante raccontare la storia dal loro punto di vista”.

Dal primo momento lei si è sentita travolta dalla storia?

“Sì, assolutamente sì, anche perché ogni volta che realizzo un film penso sempre ai vari aspetti e a come posso raccontare la storia nel modo migliore. Però quando faccio un film torno sempre al momento iniziale, al momento in cui sono stata travolta dalla storia, dalle immagini, da una situazione. E in questo caso la voce di Hind Rajab, che è quella che ho sentito per prima, era la voce che mi parlava, avevo la sensazione che parlasse a me, che dicesse a me ‘salvami, salvami’, anche se in realtà si rivolgeva in modo razionale agli operatori della Mezzaluna Rossa. Ho pensato che nessuna attrice, per quanto brava, sarebbe stata in grado di rendere o di doppiare la sua voce, e quindi ho deciso che dovevo mantenerla. Anche perché Hind Rajab è una delle persone a cui a Gaza è stata tolta la voce, e farla doppiare mi sarebbe sembrato un tradimento. Là si sta tentando di silenziare, di togliere la voce e la possibilità di esprimersi. Quindi era giusto che la sua voce rimanesse”.

Nel film si avverte un intreccio tra fiction e documentario. È stata una scelta?

“Sì, è stata una scelta precisa. La domanda principale che mi sono posta, come regista, è stata: qual è il miglior mezzo cinematografico per poter esprimere tutto questo? Perché non era tanto importante ciò che provavo io, ma ciò che avevano provato gli operatori che hanno ricevuto e vissuto quelle parole. Questo documento spinge a provare sentimenti profondissimi, che risuonano a livello umano: un senso tremendo di impotenza, sapendo che c’era una persona in pericolo e che non si riusciva a fare nulla. Per questo ho scelto di raccontare soprattutto il loro lavoro. In generale, il mio cinema si muove sempre sul confine tra documentario e fiction. Non mi sento mai a mio agio con divisioni nette, mi piace restare a cavallo dei generi, perché credo sia il modo migliore per raccontare le storie che voglio raccontare”.

Nel film si sente la voce della bambina che dice che i carri armati sono vicini. Accertare la responsabilità della sua morte è stato oggetto di investigazioni internazionali.

“Assolutamente fondamentale. Su Hind Rajab ci sono state indagini molto approfondite, dal Washington Post, da Sky News e da altri. Ma ai giornalisti è impedito di entrare a Gaza, e i giornalisti locali vengono quasi sempre uccisi. C’è una vera guerra contro la verità. Quando ho realizzato questo film ho parlato a lungo con la madre di Hind, con Rana, con gli operatori della Mezzaluna Rossa: ho avuto racconti diretti di ciò che era successo. Ma il mio non è un lavoro investigativo, io faccio cinema. Il mio compito è costruire qualcosa che possa portare all’empatia, per far capire e sentire cosa stava accadendo davvero”.

Come è arrivata a questi audio?

“Io ho contattato direttamente una persona della Mezzaluna Rossa. In realtà il Washington Post voleva quelle registrazioni. Sono stata fortunata perché la persona che ho contattato era un cinefilo, conosceva il mio lavoro e i miei film. C’è stato quindi un grande atto di fiducia nei miei confronti. E quelle registrazioni erano fondamentali, centrali per il film”.

Cosa pensa del boicottaggio di Gal Gadot chiesto da una associazione di artisti italiani?

“In realtà non c’è stato un boicottaggio, semplicemente lei non è voluta venire. È ovvio che le persone hanno opinioni diverse e che nessuno sceglie dove nascere: puoi nascere in Israele, puoi nascere a Gaza. Io credo che ognuno sia responsabile delle proprie opinioni e delle proprie posizioni. E penso che oggi sia estremamente coraggioso, per chi vive in Israele, opporsi al genocidio dall’interno del Paese”.

Gli eventi raccontati sono del 29 gennaio 2024. Ora siamo nel 2025: com’è stato il processo di realizzazione del film? È stato veloce?

“Sì di solito un film richiede due anni e mezzo o tre tra scrittura e finanziamenti. Io stavo iniziando la preparazione di un altro progetto, ma quando ho ascoltato la registrazione di Hind Rajab ho sentito una rabbia fortissima, condivisa anche dalla troupe e dal produttore. Abbiamo ricevuto gli audio a luglio dello scorso anno, ad agosto ho completato la sceneggiatura, a novembre abbiamo girato, poi siamo passati al montaggio che abbiamo chiuso in aprile-maggio e infine alla post-produzione. È stato un processo intensissimo, fatto con tutta l’energia possibile, perché non volevamo che questa storia passasse sotto silenzio. Per me il silenzio equivale a complicità”.

Durante la campagna Oscar di Quattro sorelle, lei è stata contattata da Plan B, la casa di produzione di Brad Pitt. Poi si sono aggiunti Joachim Phoenix, Rooney Mara, Alfonso Cuaron. Si è sorpresa di questo sostegno?

“Quando ero in tour per Quattro sorelle sono stata contattata da Dede Gardner, una delle tre socie di Plan B, che aveva amato moltissimo il film e mi ha chiesto del mio progetto successivo. Poi abbiamo mostrato questo lavoro a lei e a sua volta lei lo ha fatto vedere a Brad Pitt, che ha deciso di essere coinvolto. In realtà tutti questi grandi nomi sono arrivati alla fine, quando il film era già montato, quasi pronto. Lo abbiamo mostrato loro e hanno voluto sostenerlo. C’è un errore diffuso: non hanno prodotto il film. I miei produttori sono James Wilson e Odessa Rae. Noi abbiamo iniziato il progetto, poi alla fine Joaquin, Rooney, Alfonso Cuaron lo hanno visto e sono rimasti così colpiti da voler mettere il loro nome come executive producers, come spesso fanno negli Stati Uniti: “Metto il mio nome, sostengo il film, ci sono dietro. E questo dà più forza, amplifica la voce del film. Sono persone molto conosciute che usano la loro piattaforma e il loro nome per amplificare questa voce, ed è qualcosa di ammirevole”.

Man mano che prosegue il film prende sempre più una impronta documentaristica, si fondono le immagini di finzione con le testimonianze e le immagini vere. Perché questa scelta?

“Perché le immagini delle ambulanze esplose, dei morti, le vediamo continuamente online, ma sempre con una certa repulsione, quasi senza volerle guardare. Invece io volevo che, dopo tutta la parte narrativa, fossero percepite in un altro modo. Non solo le immagini dell’ambulanza e dell’auto colpita, ma anche quelle della spiaggia. Hind amava il mare, amava quella spiaggia e non vedeva l’ora che finisse la guerra per poterci tornare. Sapendo che oggi si parla di trasformare quella spiaggia in un resort, in una riviera, per me era fondamentale chiudere il film con quelle immagini reali, perché restano un simbolo della sua vita e del suo sogno”.

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