Cellulari in classe, la sfida vera non è toglierli ai ragazzi ma educare gli adulti

Armadietti, tasche a parete, contenitori con chiavi. Le scuole italiane si stanno attrezzando per dare forma concreta alla norma firmata lo scorso giugno dal ministro Valditara, che vieta l’uso dello smartphone durante l’orario scolastico.

Lo smartphone e la nuova solitudine: siamo iperstimolati ma disconnessi

Una scelta che molti genitori salutano con sollievo, e che gli insegnanti aspettavano da anni: perché il telefono in classe è come un rumore di fondo che non si spegne mai. Distoglie, distrae, cattura lo sguardo mentre un pensiero dovrebbe nascere. È un oggetto che interrompe la relazione educativa, che frantuma la concentrazione e cancella il silenzio.

Risolta solo la parte minima del problema

Eppure, se ci fermiamo qui, avremo risolto solo una parte minima del problema. Avremo vinto la battaglia dentro le mura scolastiche, ma avremo perso quella che comincia appena fuori dal cancello. Alla campanella, il cellulare tornerà nelle mani dei ragazzi. E con lui torneranno le ore infinite sui social, le sfide virali, l’ansia da notifiche, il confronto ossessivo con i coetanei. In altre parole: tornerà la vita digitale che li accompagna giorno e notte.

Il divieto è un argine momentaneo. È utile, ma non sufficiente. È come togliere le chiavi di un’auto per paura di un incidente: funziona finché l’auto resta ferma in garage. Ma prima o poi bisognerà insegnare a guidarla.

Perché serve un patentino digitale

E qui entra in gioco ciò che da anni chiedo come psicoterapeuta e presidente dell’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche: un Patentino Digitale obbligatorio. Non una lezione aggiuntiva, non un progetto spot, non un seminario isolato. Ma un percorso strutturato, obbligatorio e certificato per tutti i ragazzi, capace di trasformare la tecnologia da nemico a strumento, da prigione a palestra di libertà.

“Drogati” di hi-tech dimentichiamo i nostri figli

Come la patente di guida. Nessuno si sognerebbe di lasciare un adolescente al volante senza averlo prima formato. Perché allora lasciamo i nostri figli dentro un’autostrada digitale senza regole né istruzioni?

Chi controlla i controllori?

Ma c’è un altro nodo, spesso ignorato: chi dovrà applicare questa regola? Già immagino i dirigenti e i docenti costretti a trasformarsi in controllori, a vigilare su armadietti e tasche a parete, a inseguire studenti che provano a nascondere il telefono nello zaino. È davvero questo il compito della scuola? Non dovrebbe essere sufficiente dire: “A scuola lo smartphone non si porta”? Invece rischiamo di scaricare su insegnanti e presidi un ruolo da guardiani che logora, anziché rafforzare, l’alleanza educativa.

Poche regole ma chiare

Un tempo le regole erano chiare e bastava poco. Chi oggi ha cinquant’anni ricorda bene cosa significava portare in classe un walkman o un giornaletto proibito: la regola era semplice, “a scuola non si porta”, e l’autorità dell’adulto non veniva discussa. Ed era il genitore, per primo, a dirtelo. Non servivano circolari ministeriali né armadietti: bastava uno sguardo di tuo padre o di tua madre per capire che quella regola non era negoziabile.

La fragilità collettiva

Oggi, invece, non solo i ragazzi faticano ad accettare un limite, ma gli stessi adulti hanno smarrito la forza di dirlo e di farlo rispettare senza scivolare in battaglie infinite. È il segno di una fragilità collettiva: quella di un mondo adulto che non crede più nella propria autorevolezza.

Il problema è che educare è faticoso. Richiede tempo, costanza, pazienza. Vietare, invece, è semplice: si prende una decisione, si mette una firma, si costruisce un armadietto. Ma il risultato non resta. Perché un ragazzo che spegne il telefono perché costretto non è libero, è solo obbediente. La libertà vera nasce quando sceglie da sé di non usarlo, quando impara a riconoscere i meccanismi che lo attirano e a dire “no” non per imposizione, ma per coscienza.

Astinenza da smartphone? Come liberarsi dalla dipendenza

E i genitori? Non possiamo dimenticarli. Ogni sera milioni di madri e padri si trovano soli, disarmati, davanti a figli che vivono in una stanza parallela fatta di chat, piattaforme, video infiniti. La scuola può vietare, ma a casa il telefono diventa compagno silenzioso, alleato invisibile, a volte persino rifugio. Chi aiuterà le famiglie? Chi darà strumenti concreti a chi, con fatica, cerca di mettere un limite senza riuscirci?

Serve un patto educativo

Ecco perché serve un patto educativo tra scuola e famiglia. Non possiamo permettere che i ragazzi siano disciplinati a scuola e prigionieri del digitale a casa. Non possiamo pensare che un insegnante faccia tutto da solo, né che un genitore, da solo, riesca a reggere l’urto di una tecnologia che conosce meglio i nostri figli di quanto li conosciamo noi.

Con la mia associazione, Di.Te., abbiamo scritto un Manifesto per un’educazione digitale vera. Dentro ci sono esperienze concrete: settimane di astinenza guidata con diario emotivo, laboratori per smontare fake news e manipolazioni, challenge room per imparare a dire no alle sfide virali, palestre della frustrazione per allenarsi al silenzio e all’attesa, serate Disconnect in cui genitori e figli imparano insieme a riscoprire la presenza reciproca. Non teoria, ma esperienze che lasciano segni.

Né prediche né divieti

E poi c’è un punto decisivo: i ragazzi stessi. L’educazione digitale non può essere calata dall’alto, non può essere solo predica o divieto. Deve diventare un linguaggio condiviso, un terreno in cui gli adolescenti siano protagonisti. Ecco perché proponiamo la figura dei mentori digitali: studenti che guidano i compagni, non con sermoni, ma con l’esempio. Perché l’adolescente ascolta più volentieri un coetaneo che un adulto.

La verità è che siamo davanti a un bivio. Possiamo accontentarci di chiudere un telefono in un armadietto, oppure possiamo assumerci la responsabilità di educare. Non basta spegnere uno schermo: dobbiamo accendere nei ragazzi la capacità di reggere la noia, il silenzio, l’attesa. Perché non è il telefono a renderli fragili. È l’assenza di adulti che sappiano dire “no” e insegnare come si fa a stare nel mondo reale.

Giuseppe Lavenia – psicoterapeuta, docente universitario, presidente Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, GAP e Cyberbullismo (Di.Te.)

Condividi questo contenuto: