Piercing, dal romanzo di Ryu Murakami un’indagine sul corpo, sulla mente e sul desiderio. In streaming su MYmovies ONE

Piercing di Nicolas Pesce è uno di quei film che si insinua lentamente sotto la pelle dello spettatore, trasformando la superficie dell’orrore in un gioco perverso di controllo e ambiguità psicologica.

Già dal titolo, evoca infatti l’idea di un contatto invasivo, preannunciando il tema centrale del film: la tensione tra impulso e disciplina, tra violenza e rituale, tra desiderio e pulsione distruttiva.

Tratto dall’omonimo romanzo di Ryu Murakami, il film si distingue per la meticolosità con cui Pesce costruisce la narrazione, fatta di tempi sospesi, dialoghi scarni e una violenza sempre più suggerita che mostrata.

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Il protagonista Reed (interpretato da Christopher Abbott con un’inquietante compostezza) è un uomo ossessionato da impulsi omicidi che tenta di incanalare in una logica quasi rituale. Il film inizia con la maniacale preparazione di un omicidio: in questo modo, Pesce mostra subito il suo conflitto tra l’ordine mentale e il disordine morale, tra la meticolosità della ragione e il caos incontrollabile delle pulsioni.

L’opera si muove su un crinale costante tra suspense e grottesco, dove la violenza è sempre anticipata o sublimata, mai completamente esplicitata. La sceneggiatura si concentra sul rapporto ambiguo tra Reed e Jackie (Mia Wasikowska), la donna che diventa al contempo vittima e partner nel gioco mortale. La loro interazione assume una valenza quasi teatrale: dialoghi secchi, sguardi fissi, piccoli gesti che racchiudono tensioni sessuali e psicologiche.

Il regista trasforma l’incontro tra i due in un duello di potere e desiderio, dove la violenza è sempre potenziale e l’umanità dei personaggi è sospesa tra empatia e orrore. La macchina da presa, spesso fissa e frontale, cattura questa ambiguità, trasformando lo spazio in un teatro claustrofobico dove ogni movimento è carico di una minacciosità latente.

Sul piano visivo, Piercing ricorre a un’estetica fortemente stilizzata: luci fredde e contrasti netti, inquadrature simmetriche e precise che costruiscono una sorta di perfezione geometrica dell’orrore. Questo minimalismo visivo non riduce la tensione, al contrario, la amplifica, creando un senso di dissonanza tra ciò che vediamo e ciò che percepiamo.

La violenza diventa così un rumore di fondo della psiche disturbata di Reed, più potente e inquietante per la sua elusione che per la sua materializzazione.

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La colonna sonora, rarefatta e inquietante, accompagna lo spettatore in un crescendo di suspense che raggiunge il culmine nella sequenza finale, dove il confine tra predatore e vittima si dissolve definitivamente.

In definitiva, Piercing non è solo un thriller: è un’indagine sul corpo, sulla mente e sul desiderio, presentata con una lucidità e uno stile che lo rendono un lavoro di straordinario fascino.

Pesce dimostra che il cinema può esplorare il male e la violenza con precisione chirurgica, senza banalizzarli, e che l’orrore più potente risiede spesso nell’attesa e nella preparazione, più che nell’atto in sé.

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