Stefano Sollima: “Il Mostro, alle radici di un patriarcato che fa ancora vittime”
Venezia – Il “Mostro di Firenze” non è solo il caso criminale più oscuro e intricato della storia italiana: è una ferita che ha attraversato decenni, alimentando paure collettive, ossessioni mediatiche e un’inchiesta che, tra depistaggi e misteri, non ha mai trovato una verità definitiva. Dal 1968 al 1985, otto duplici omicidi compiuti con la stessa Beretta calibro 22 hanno trasformato le colline toscane in un incubo nazionale, segnando per sempre l’immaginario del Paese. A riportare oggi quella vicenda sullo schermo, partendo dalle origini è Stefano Sollima, regista che ha raccontato come pochi le zone d’ombra italiane – da Romanzo criminale a Gomorra, a Suburra – con la miniserie Il Mostro, su Netflix dal 22 ottobre.
“Una sfida narrativa sì: per le indagini, l’eccesso di studio che c’è stato, e per come questo fatto di cronaca a un certo punto è diventato quasi un racconto mitologico. Sono sempre le storie a scegliere noi e non viceversa. Ho iniziato a leggere dei libri sul mostro ed è diventata un’ossessione, un confronto diretto con l’orrore. Ma ognuno aveva una tesi, che rimandava ad altri libri e ad altre tesi. E poi ci sono gli atti giudiziari, processi, interrogatori, sopralluoghi. Mi sono reso conto che l’enorme attenzione mediatica sul caso, ha prodotto una pressione sugli inquirenti: bisognava dare un nome e un colpevole. E questo ha fatto sì che venissero chiuse alcune piste, tralasciando ciò che poteva confutarle. Da lì è nata l’idea: raccontare il contesto culturale, tutte le piste, i possibili sospetti, i possibili “mostri”, dal loro punto di vista. Perché probabilmente molti di loro non erano il Mostro di Firenze, ma erano comunque figure che ti permettevano di indagare la mostruosità”.
In questi casi il rischio è la morbosità, o di schiacciare il femminile. Lei invece ha scelto un racconto molto attento. A partire dalla figura di Barbara Locci, la prima “vittima”.
“E’ stato difficile. Da un lato rischiavi la morbosità, dall’altro c’era la tentazione di edulcorare l’orrore. Il personaggio che mi ha colpito di più, fin dall’inizio, è stata Barbara Locci: era il simbolo di come le donne fossero considerate. I matrimoni erano combinati, forzati; lo stupro non era visto come offesa alla donna, ma all’onore della famiglia. Se lo stupratore sposava la vittima, il delitto veniva cancellato. Nei verbali dell’epoca leggi come persino i carabinieri giudicassero moralmente la Locci. Io l’ho guardata con lo sguardo di oggi: una donna costretta a sposare un uomo più anziano, vittima di violenze domestiche e coercizione sessuale. Lei rompeva le regole iniziando relazioni extraconiugali, che oggi sarebbero normali e lecite, certo non punite con la morte. Allora era vista come una donna che andava contro le regole non scritte di una società rurale e patriarcale. Lei ha fatto una scelta coraggiosa”.
La ricostruzione dei delitti è meticolosa, ma rispettosa delle vittime.
“Da un punto di vista umano è stata una delle cose più complesse che io abbia mai fatto. Per ricostruire tutto abbiamo dovuto vedere le foto scattate subito dopo i ritrovamenti: immagini che vorrei non aver mai visto. Però era l’unico modo per essere rispettosi delle vittime e della realtà. Abbiamo studiato tecnicamente tutto e rimesso in scena. È stata un’esperienza dolorosa per tutti, attori compresi. Ma necessaria, perché non potevi non farlo. E nel ricostruire posizioni e traiettorie capivi meglio cosa poteva essere accaduto. È stata un’esperienza fortissima. Io ho fatto il giornalista, anche in zone di guerra, ho visto cose che avrei preferito non vedere, ma era un contesto diverso. Qui facevi un film: emotivamente la complessità è stata enorme”.
“Esatto, non ricorda. E immagini anche come venissero condotti gli interrogatori a un minore in quegli anni: non certo con le tutele che ci sono oggi. Purtroppo, quella è una storia di progressivi inquinamenti, operati praticamente da chiunque avesse avuto a che fare con il caso, e questo a un certo punto ha reso impossibile, o comunque molto più difficile, una reale soluzione”.
Lei ha detto che con i procedimenti di oggi probabilmente il Mostro di Firenze sarebbe stato scoperto. Quanto c’è stata, anche involontariamente, una catena di errori generati da convinzioni o pregiudizi, e quanto invece era dovuto alla mancanza di strumenti tecnici?
“Secondo me, da un punto di vista culturale, noi non eravamo pronti a metabolizzare l’idea di una serie omicidiaria così. Fin dal primo omicidio, che cosa andavano a cercare? Trovavano una donna che amoreggiava con un uomo in un boschetto: chi andavano a prendere? Probabilmente il marito o il compagno tradito. Applicavano il proprio contesto culturale alle indagini. Era ovvio che pensassero a un amante geloso. In più, aggiungerei che i mezzi scientifici dell’epoca non erano quelli di oggi. Già prendere le impronte era un passo successivo. Quindi penso che ci sia stato un grande impegno da parte degli inquirenti, un impegno durato decenni, ma limitato dai mezzi e dal contesto. Mi sono promesso di non avere mai una tesi. Non provare a capire chi potesse essere il Mostro, ma raccontare la storia con rigore e rispetto, così com’è successa. L’intuizione di raccontare i “mostri” mi ha aiutato, li racconti tutti e racconti l’essere umano all’interno di questa vicenda”.
Ha scelto attori bravissimi ma non così famosi: perché?
“Intanto perché, essendo un racconto molto focalizzato sulla comunità sarda, era imprescindibile che gli attori fossero sardi. C’è una parte recitata in dialetto, quindi era fondamentale rispettare anche la cultura di provenienza. Ho fatto il cast cercando soltanto attori sardi e ho scelto i migliori, quelli più giusti per i ruoli, indipendentemente dalla notorietà. E poi penso che sia bello, in una storia così, abbandonarsi ai personaggi senza partire da un attore conosciuto che porta con sé la sua immagine. Non guardi al virtuosismo dell’attore, ma ti identifichi. Entri nei personaggi e segui soltanto loro”.
Alla fine di questo percorso, è maturata in lei una convinzione?
“No, diciamo che mi sono fatto tantissime domande. Mettendo in scena i delitti mi sono chiesto, ad esempio, se la disposizione dei corpi delle vittime fosse davvero così casuale. Faticavo a immaginarmi troppe persone a commettere lo stesso delitto. Ma non volevo suggerire risposte. Il senso non era cercare chi fosse il Mostro, ma stimolare domande: chi siamo noi? Qual è la nostra cultura? Perché succedono certe cose?”.
Che cosa rende unico il Mostro di Firenze rispetto ai serial killer famosi in altri Paesi?
“Probabilmente il fatto che questo accadesse in Italia, con un contesto culturale, storico, religioso, sociale completamente diverso da quello americano, per esempio. Forse l’eccezionalità è proprio questa: un serial killer con quelle caratteristiche da noi non c’era mai stato, né prima né dopo”.
E che cosa racconta oggi, dell’Italia contemporanea?
“Forse quel brodo di misoginia e mascolinità tossica che ancora oggi miete vittime quasi ogni giorno”.
Ha pensato al cinema di suo padre Sergio? Si è chiesto cosa lui le avrebbe detto?
“Una cosa che lui mi diceva sempre, quando da ragazzo iniziavo a scrivere, era: ‘Un film ha senso soltanto se non racconta una storia, ma se racconta qualcosa di noi’. Quella frase l’ho presa come un mantra, l’ho fatta mia. E anche questa storia, in fondo, parla di noi. E di quanto anche noi possiamo essere dei mostri. Perché facciamo fatica ad accettare la banalità del male, che è semplice e terrificante per quello che è”.
Dal corto “Zippo” nel 2003, a “ZeroZeroZero”, nel 2019, “Adagio” in concorso nel 2023. Tornare alla Mostra, con “Il mostro”?
“Trovo che sia importante più che altro per il progetto, a cui tengo molto. Trovo che sia bello, rispettoso: è un pezzo della nostra storia recente e quindi forse questo è il palcoscenico più giusto dove presentarlo”.
Ha deciso di realizzarlo con Netflix, pensando a un palcoscenico più ampio?
“Penso che questa storia, seppur molto italiana per certi versi, avesse tutte le caratteristiche per essere recepita anche a livello internazionale. Era in linea con la capacità di parlare a un pubblico più ampio, a una platea globale, e quindi Netflix mi è sembrato l’interlocutore più giusto”.
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