Processo senza fine all’ex Ilva così l’impianto brucia lavoro
C’è stato un inizio. Ma non c’è ancora una fine. Se dovessimo mettere infatti un inizio a questa storia (che è il principio di una storia di liberazione, visto che fino a quel momento mai nessuno aveva avuto il coraggio di mettere in fila la parola morte con quella lavoro), quello è nell’estate del 2012. Una mattina la procura di Taranto sequestrò Ilva e arrestò i Riva. Significava ribaltare i dogmi, rovesciare i luoghi comuni. Fino ad allora l’Ilva era la “fabbrica dei padri”: lavoro, identità, un gigante che faceva di Taranto il polo dell’acciaio d’Europa. Con l’inchiesta “Ambiente Svenduto” l’immagine si rovescia: intercettazioni su controlli “pilotati”, perizie sanitarie che registrano un eccesso di patologie, le polveri rosse del rione Tamburi come fotografia quotidiana dell’inquinamento. Il patto non scritto tra città e stabilimento si incrina: il diritto alla salute entra in collisione con il diritto al lavoro.
La crisi di Taranto . Poche offerte e l’incubo “spezzatino”
Nel 2013 la città viene chiamata a un referendum consultivo: partecipa un tarantino su cinque. È la misura di una paura concreta — perdere il reddito — e del riflesso di autodifesa di una comunità operaia. Intanto la politica nazionale sceglie la strada dei decreti “salva-Ilva”: commissariamento, piani ambientali, continuità produttiva nonostante i sequestri. Arriva Enrico Bondi; le sue parole minimizzano i veleni e alimentano la frattura con i comitati e la magistratura. La stagione 2012-2014 è una contesa permanente: nelle fabbriche, nelle aule giudiziarie, nello spazio pubblico della città.
Gli impianti in Italia
Il processo penale prende forma lentamente. Nel 2014 si moltiplicano eccezioni e conflitti di competenza; la macchina della giustizia rallenta, ma non si ferma. Bisogna attendere il 31 maggio 2021: la Corte d’Assise di Taranto condanna Fabio Riva a 22 anni e Nicola Riva a 20, riconosce il disastro ambientale e le omissioni dolose di cautele. Per Taranto è un passaggio catartico: la sofferenza ha un nome, una responsabilità, una storia che non è fatalità.
Tre anni dopo, la parabola si spezza. Nel settembre 2024 la Corte d’Assise d’Appello annulla la sentenza per incompetenza territoriale: tra le parti civili figurano due giudici di pace tarantini (e un componente esperto della sezione agraria) in servizio all’epoca dei fatti. Tradotto: il processo non poteva celebrarsi nel distretto. Gli atti vengono trasferiti a Potenza, la Cassazione a dicembre rende inammissibili i ricorsi delle parti civili. È un azzeramento che rimette in discussione tempi, memorie, strategie: testimoni da riascoltare, consulenze da rifare, una città di nuovo sospesa. Mentre un pezzo importante delle accuse si sgretola, tagliate dalla prescrizione.
l’impatto sul pil italiano
La nuova pelle
Nel frattempo lo stabilimento cambia pelle: l’uscita dei Riva, l’ingresso di ArcelorMittal, poi Acciaierie d’Italia con lo Stato in campo. I forni si accendono a intermittenza, i piani di decarbonizzazione si fermano ai dossier, la produzione scende. Sul piano industriale prende forma la trattativa con Baku Steel; sul piano giudiziario arriva l’ennesimo scossone: a maggio 2025 la Procura sequestra senza facoltà d’uso l’altoforno 1 dopo un incendio e il collasso di parte della struttura. Nelle otto pagine di convalida si ipotizza un comportamento omissivo dell’azienda: l’evento non sarebbe stato qualificato e denunciato come «incidente rilevante»; si passano ai raggi X manutenzioni e lavori programmati; tre dirigenti risultano indagati. Per i pm «potrebbe succedere ancora»: l’impianto deve fermarsi.
Qui esplode lo scontro istituzionale. Il ministro delle Imprese Adolfo Urso a Taranto attacca la magistratura ed evoca lo spettro di Bagnoli: se il sequestro blocca anche la manutenzione, «nessuno scommetterà sulla riconversione», la trattativa con gli azeri si complica, lo stabilimento perde circa un milione al giorno; con un solo altoforno attivo la situazione peggiora; si annuncia cassa integrazione in migliaia. La Procura replica documenti alla mano: già all’atto del sequestro sono state autorizzate le attività a tutela di sicurezza e salute; a 22 ore dal deposito dell’istanza aziendale è arrivato il via libera agli interventi richiesti; soprattutto, la manovra chiave per non spegnere l’impianto — il colaggio dei fusi — non è mai stata domandata nelle due comunicazioni ufficiali. La ricostruzione giudiziaria smentisce il racconto politico: il fermo non è figlio di «autorizzazioni negate», ma di un impianto fragile e di richieste parziali.
Un film già visto
Taranto rivede un film già visto: impianti sotto sequestro, operai a casa, la politica che evoca la salvezza e la magistratura che rivendica la tutela della sicurezza. Il punto di rottura è tutto qui: un impianto vecchio, su cui la catena di manutenzioni e controlli è materia di indagine, e una trattativa industriale che vive di funzionalità e tempi. Lo scontro tra procure e governo non è solo dialettica: determina percezioni, aspettative, fiducia degli investitori. La città lo sente sulla pelle.
Oggi la storia giudiziaria dell’Ilva è un fascicolo che riparte da Potenza e un’inchiesta che a Taranto tiene fermo l’altoforno 1. La storia sociale è il rumore di fondo: operai appesi a una cassa integrazione che cresce, famiglie che piangono morti e temono di ammalarsi ancora, il lavoro che si sgretola. La fabbrica che ha fatto grande Taranto e l’ha ferita resta nel paesaggio come un vulcano: una presenza che chiude ogni orizzonte, una minaccia costante. Una sentenza definitiva potrà dire chi ha sbagliato, ma non restituirà da sola la prospettiva. Perché il nodo — dopo tredici anni — è tornato al punto di partenza: senza impianti sicuri e un progetto industriale credibile, la giustizia non basta; senza giustizia, nessun progetto può reggere. In mezzo, una città che continua a vivere nell’attesa.
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