Claudio Gioè torna a Màkari: “Ormai per strada mi chiedono di salutare Piccionello”
ROMA – Claudio Gioè ha compiuto 50 anni nel gennaio scorso, è attore da 25, il debutto al cinema con l’amico Luca Guadagnino, la formazione teatrale ma è sicuramente la fiction ad avergli dato la popolarità di cui gode oggi. Dopo tanti personaggi, molti siciliani come lui, è l’ex giornalista dalla carriera da portavoce politico naufragata Saverio Lamanna, che lo ha consacrato al grande pubblico. La scorsa stagione di Màkari ha avuto picchi di 4 milioni di spettatori e ora riparte con quattro serate su Rai 1, la prima domenica 19 ottobre. In questa stagione nuovi casi ma soprattutto grandi novità nella vita privata di Lamanna.
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Alla quarta stagione di Màkari quanto c’è di Lamanna in Gioè e quanto di Gioè in Lamanna?

“Saverio è della mia generazione e ha i miei stessi riferimenti culturali, locali, è palermitano come me e come me condivide San Vito Lo Capo come zona di vacanza. Anche io da ragazzo frequentavo quelle zone e leggendo i libri mi ha colpito quanto abbiamo in comune. In comune abbiamo anche essere siciliani di ritorno, lui ha passato tanti anni fuori come è successo a me che sono stato quasi trent’anni a Roma, seguendo le proprie aspirazioni, ampliando gli orizzonti culturali e con quel bagaglio è tornato in Sicilia a confrontarsi quotidianamente con gli aspetti della sua terra che affronta con un certo cinismo. C’è una certa osmosi tra me e il personaggio”.
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La maggiore differenza?
“Saverio è un ‘camurriusu’ come lo apostrofano spesso, puntiglioso, che punzecchia soprattutto Piccionello un po’ su tutto. Non ero così ma lo sto diventando, devo stare attento a non ‘lamannizzarmi’ troppo per non rompere troppo le scatole al prossimo”.
Questa popolarità ha portato a qualche situazione surreale?
“Diverse sì. Mi vedono e identificano con Lamanna e mi parlano come se fossi lui e io mi presto a duettare dentro il personaggio mentre sto a fare la spesa. L’altro giorno passeggiavo per Palermo e a un certo punto uno da una macchina senza neppure fermarsi mi ha urlato ‘oh salutami Piccionello’.
La chiave della quarta stagione è il salto che fa Lamanna da “uomo in fuga” a uomo che deve prendersi le sue responsabilità anche nei confronti di un’adolescente che irrompe nella sua vita. Lei ha compiuto cinquant’anni, pensa alla paternità, all’idea di “diventare grande”?
“Me la state tirando questa paternità. Non c’è ancora riuscita mia madre che continua a chiedermi ‘quando le faccio un nipotino’ e ora ci si mettono gli sceneggiatori di Màkari. Non è assolutamente una cosa che ho escluso a priori, se arriverà la affronterò. Grazie alla serie ho sperimentato gli scontri più aspri tra un genitore e un adolescente. Che non è cosa semplice, mi è servita da palestra”.
Lei è tornato a vivere in Sicilia pochi mesi prima di cominciare l’avventura di questa serie. Com’è stato rivivere la propria terra dopo tanto tempo e anche lavorarci?
“C’è da dire che il legame con Palermo e la Sicilia non si è mai allentato, anche quando vivevo a Roma trascorrevo diversi mesi l’anno giù, soprattutto d’estate. Poi da buoni siciliani la terra ce la portiamo sempre dietro, basti sapere che facevamo i festini di Santa Rosalia il 14 luglio in trasferta a Roma a mangiare arancine e a festeggiare la santuzza. Nella quotidianità tornare a vivere giù non è sempre semplice, il Sud è fatto di tanta bellezza ma anche molte difficoltà, è inutile lottare con razionalità bisogna seguire la corrente e non mettersi contro, altrimenti ti condanni a una vita di gastriti. Si fa una mala vita a stare dietro alle tante follie della Sicilia”.
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La Sicilia l’ha raccontata diverse volte, tra le ultime cose prima di Màkari c’è stata l’esperienza di La mafia uccide solo d’estate di Pif. Qual è un volto della Sicilia che vorrebbe ancora raccontare?
“La capacità dei siciliani di resistere a tante cose, a tante problematiche quotidiane, che un po’ abbiamo affrontato nella serie di Pif, vale secondo me la pena di essere approfondita. La dignità dei siciliani di fronte alle proprie tragedie sociali è sempre stata molto forte, forse oggi un po’ più sopita, ma il popolo siciliano ha sempre saputo combattere a suo modo contro le intemperie della storia. Questa sua postura meriterebbe una sua narrazione”.
Lei pensa a scrivere qualcosa sul tema?
“Sì mi piacerebbe affrontare – non come Tomasi Di Lampedusa – l’epoca dell’unificazione che è ancora una ferita aperta per il Sud Italia, meriterebbe una versione meno fumettistica di quella che ci hanno raccontato a scuola. Ci sono state tragedie del popolo del Mezzogiorno che ricordano stermini di cui sentiamo parlare oggi, ma di cui ci è stata negata la narrazione. La storia viene sempre scritta dai vincitori”.
Quando ha avuto il colpo di fulmine per la recitazione?
“Fu un corso di teatro al liceo a Palermo alla fine del quale portavamo in scena uno spettacolo, una sorta di saggio. E ricordo perfettamente ancora oggi l’emozione di sentire la reazione del pubblico, le risate. Era la prima volta che vivevo qualcosa di così potente. Ho provato tante emozioni che ancora oggi non so descrivere pienamente. Forse ancora sto cercando di ritrovare quella gioia in ogni lavoro che faccio mettendomi a disposizione dell’emozioni del pubblico”.
Il debutto al cinema invece è avvenuto con un amico, con Luca Guadagnino. Il film era The protagonists ed era il 1999. Siete sempre in contatto?
“È difficile stare dietro a Luca con i suoi impegni ma sono felicissimo per tutto quello che sta realizzando. Qualcosa che aveva già molto chiaro in mente a 27 anni quando abbiamo iniziato insieme questo lavoro. Ho recitato nel suo primo cortometraggio, nel suo primo lungometraggio e la stima continua a crescere. Ci sentiamo, ogni tanto ci vediamo, anche lui tiene comunque sempre un piede a Palermo, ha una gran voglia di tornare. Ci siamo conosciuti e riconosciuti a Roma da siciliani espatriati e per me è stato un vero mentore. Io ero completamente all’asciutto di cinema, venendo dall’Accademia d’arte drammatica i film li consideravo un’arte minore… Attraverso le sue lucidissime critiche oblique, caustiche, perché va ricordato che prima di essere regista è stato critico cinematografico, ho acquisito una serie di chiavi di lettura che mi servono ancora oggi. È uno dei pochissimi registi che stimo immensamente”.
Fin da subito c’è stato il confronto con Montalbano, la Sicilia, il giallo, i romanzi da cui sono tratti, anche la stessa casa di produzione. Camilleri poi è stato una sorta di mentore per l’autore dei romanzi da cui è tratta la serie, Gaetano Savatteri.
“È un rapporto proprio di allievo e maestro quello della nostra serie rispetto a Montalbano. Tra l’altro Andrea Camilleri è stato anche mio insegnante di regia in Accademia, ho avuto modo di conoscerlo e ne conservo un ricordo straordinario. Io con molta umiltà ho sempre detto che la nostra serie è appena all’inizio di un percorso, prima di arrivare a confrontarci con quei romanzi e quella serie che è entrata nella cultura italiana e internazionale ci vuole ancora tanto tempo”.
Ha raccontato degli anni difficili della gavetta, del periodo passato senza ruoli, dei provini che andavano male. Che consiglio darebbe ai giovani attori che stanno iniziando ora?
“Questa è la condizione costante del mestiere dell’attore, non esiste il posto fisso nella nostra professione. È una pia illusione pensare che dopo un ruolo importante ci si possa rilassare. Quello che mi sento di dire a chi inizia a fare questo lavoro è di capire cosa gli restituisce a livello artistico, l’arte drammatica per molti è una necessità. Non è necessario che questo avvenga in un film o una serie di successo, magari in una saletta da cento posti che quella sera ne ospita solo dieci può accadere qualcosa che dà pienamente senso all’arte. Ci sono momenti di mancanza di lavoro, di precarietà certo, ma se si hanno esigenze espressive non si deve aspettare la telefonata dell’agenzia ma rimboccarsi le maniche e mettere su uno spettacolo con gli amici come ho fatto a vent’anni e ho intenzione di continuare a fare”.
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