Festa di Roma, “Sergio e Mirta”: storia d’amore in 8 mm con un giovane e inedito Corbucci
ROMA – Una valigia chiusa da tempo diventa il punto di partenza di Sergio e Mirta – Un matrimonio in 8 mm, il documentario diretto da Fabrizio Laurenti e scritto con Nick Vivarelli, che porta alla luce un frammento dimenticato della vita di Sergio Corbucci. Dentro quella valigia c’erano più di venti bobine in pellicola 8 mm, girate dal regista quando era poco più che ventenne: un piccolo archivio sentimentale che racconta l’inizio di una storia d’amore, il matrimonio con Mirta Guarnaschelli, i loro viaggi, la quotidianità, gli amici e la Roma del dopoguerra. Da questo materiale nasce un film che intreccia la tenerezza privata e la memoria collettiva, restituendo un ritratto sorprendentemente intimo di uno dei maestri del cinema italiano. Sergio e Mirta non è solo il racconto di una coppia, ma anche la testimonianza di un’epoca in cui la macchina da presa era ancora uno strumento di curiosità e scoperta, prima che diventasse mestiere e linguaggio codificato.
“Mi sono trovato davanti a un piccolo tesoro che rischiava di andare perduto,” racconta Laurenti. “Quelle bobine contenevano non solo la memoria di un amore, ma anche la testimonianza di una stagione irripetibile. Corbucci filma sé stesso e la sua compagna con un candore che oggi sembra quasi impossibile: non c’è posa, non c’è finzione, c’è solo la gioia di esistere”. Il regista spiega di aver voluto restituire “la verità delle immagini così come le abbiamo trovate, senza sovrapporre troppa interpretazione. È il materiale stesso a parlare, con le sue imperfezioni, le dissolvenze improvvise, i silenzi pieni di senso”.
Il documentario (prodotto da Donatella Palermo con Rai Cultura e Luce Cinecittà con la Cineteca di Bologna e The Apartment società del gruppo Fremantle) è un racconto di 68 minuti in cui il cinema si confonde con la memoria e l’amore diventa linguaggio visivo, in un dialogo costante tra ciò che resta e ciò che svanisce. “Sergio e Mirta erano due persone comuni in un momento in cui il mondo stava cambiando”, osserva ancora Laurenti, “ma dentro quelle immagini c’è la promessa di un futuro, il desiderio di costruire qualcosa di proprio e quella fiducia nel cinema che per Corbucci sarebbe poi diventata una vocazione”. E aggiunge: “Il film parla anche di noi spettatori perché ci costringe a chiederci cosa resta di noi quando spegniamo la macchina da presa. Forse, come per Sergio e Mirta, resta la vita stessa: fragile, luminosa, imperfetta, ma ancora capace di commuovere”.

A emergere è una figura di Corbucci diversa da quella consueta: non il regista dei western dissacranti o delle commedie satiriche, ma un uomo giovane, curioso, innamorato, che usa la cinepresa come un taccuino sentimentale. Le immagini scorrono come un album domestico che diventa specchio di un’Italia in bilico tra povertà e rinascita, tra sogni e disincanto. Come racconta Mirta Guarnaschelli, raggiunta al telefono.
Cosa ha significato per lei tornare a raccontare quella storia dopo tanti anni.
“È stato da una parte divertente e dall’altra un po’ nostalgico. Rivedere quei momenti, risentire la mia voce di allora, mi ha riportato indietro nel tempo”.
Ha ripensato alla ragazza che era?
“Abbastanza, sì. Anche perché il materiale usato nel documentario era mio, lo avevo conservato io. Ogni tanto mi capitava di riguardarlo, quindi lo avevo già presente”. Rivedere quel periodo significa anche riconsiderare decisioni e sentimenti di allora? “Uno pensa sempre che poteva fare diversamente, ma in realtà io sono contentissima della mia vita, quindi non ho rimpianti”.
Ai tempi del matrimonio con Corbucci era spesso sui set, ma il cinema sarebbe diventato il suo lavoro solo più tardi.
“All’epoca ero completamente al di fuori di quel mondo. Ero molto giovane, non avevo mai frequentato quell’ambiente. Poi, certo, stando accanto a lui andavo spesso sui set, seguivo il suo lavoro, ma per me era tutto un divertimento. Non ne sapevo niente, lo vivevo con leggerezza, come una cosa curiosa e buffa”.
Di quegli anni ricorda “che ogni viaggio, ogni incontro era diverso. Quando si andava fuori per lavoro era sempre tutto molto divertente”. Che cosa le è mancato di più di lui?
“L’umorismo, senz’altro. L’ironia, quel modo di rendere tutto più leggero. Aveva un occhio spiritoso”.
Quando poi il cinema è diventato davvero il suo mestiere, è stata agente e poi casting director, ha riguardato quei ricordi in modo diverso?
“Certo, perché allora ero solo spettatrice, poi invece ho cominciato a capire davvero come funzionava tutto. Quando è diventato il mio lavoro, ho avuto un altro atteggiamento nei confronti del set, delle persone, dei film. Voglio ricordare che Sergio ha avuto un grande successo, ma non solo per i western, anche se è ricordato per quelli. Ha fatto tanti film, anche gialli, e li ha fatti molto bene. Era un bravissimo regista e, per i suoi tempi, anche molto giovane. È stato uno dei più giovani registi del suo periodo”.
Ha poi lavorato come segretaria di produzione con registi come Pietro Germi e Franco Zeffirelli.
“Con Germi ho ricordi bellissimi, perché era l’inizio. Ho imparato un mestiere. Sono ricordi molto affettuosi e molto importanti, per il lavoro ma anche per la vita. E poi è stato bello collaborare con Franco Zeffirelli. Era la cosa più interessante e più divertente, perché si lavorava in casa sua, dove riceveva sempre persone famose. Era come stare continuamente al cinema. E poi lui era una persona deliziosa”.
È stata una delle prime casting director in Italia. Si considera una pioniera?
“Sì, diciamo una delle prime. Non la prima, perché qualcun altro già lo faceva, ma eravamo in pochissimi. Poi piano piano la cosa si è sviluppata, e oggi ce ne sono moltissimi”. Quando ha capito che quello del casting era il lavoro giusto per lei? “L’ho capito perché prima facevo l’agente, avevo un’agenzia di attori. Ho sempre lavorato con loro, e passare dall’altra parte — essere io a cercarli per i film — è stato un po’ lo stesso mestiere, ma nel senso opposto”.
Da agente, quali attori le sono rimasti più cari?
“Ne ho avuti tanti, soprattutto attori di teatro. Ce n’erano moltissimi che si avvicendavano. Ma uno è rimasto nel mio cuore: Stefano Satta Flores. Era un mio grande amico. Ha fatto film magnifici, penso a C’eravamo tanto amati. Era molto intelligente, molto simpatico, napoletano, bravissimo attore e un buon amico”.
Se dovesse riassumere tutto quel periodo in una parola?
“Direi affetto. Ho lavorato con tanta gente che ormai non ricordo neppure tutti, ma quegli anni, quelli dell’inizio, sono stati bellissimi: un continuo imparare, scoprire e divertirsi”.
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