“Dream”, sesso e lotta di classe. Il regista Franco: “Il problema nel mondo è la disuguaglianza”

In Dream il regista messicano Michel Franco torna a indagare le zone d’ombra delle relazioni di potere attraverso una storia d’amore intensa e distruttiva. Con tante scene di sesso forti e crude. Protagonisti sono Jessica Chastain, nei panni di una filantropa americana abituata al privilegio, e Isaac Hernández, celebre ballerino messicano al suo debutto cinematografico, che interpreta un immigrato e artista la cui passione diventa terreno di scontro e dipendenza. Presentato alla scorsa Berlinale e ora alla Festa del Cinema di Roma, Dream si muove tra la danza e il desiderio, tra attrazione e dominio, fino a trasformare l’arte in un campo di battaglia emotivo. Franco costruisce un racconto teso e fisico, dove ogni gesto e ogni sguardo diventano strumenti per parlare di identità, disuguaglianza e potere. Il film in Italia uscirà con Fandango a metà dicembre.

Ha scelto di iniziare la storia nel mezzo della relazione, con un breve flashback solo più avanti. Perché questa struttura?

“È quello che faccio di solito. Mi fido dello spettatore. Non credo in quella scrittura cinematografica tradizionale dove tutto deve essere spiegato, chi è buono, chi è cattivo, cosa succede e perché. Mi piace quando un film somiglia alla vita. È interessante tagliare nel mezzo, ma non è mai casuale. Penso che, anche solo dalle prime interazioni, si possa intuire da dove vengono i personaggi. E in questo film c’è un flashback — cosa che non avevo mai fatto prima — per dare proprio quel senso di passato condiviso”.

Inizialmente la storia non prevedeva la danza. È arrivata dopo, con l’incontro con Isaac?

“Sì. Era un progetto molto simile, ma senza il balletto. Il personaggio di Jessica, in origine, era un uomo. Era un’idea che avevo da anni. Durante le riprese di Memory ho pensato: “E se la proponessi a Jessica?”. Gliene ho parlato durante una pausa pranzo e lei ha detto subito di sì. Dopo qualche tempo ho visto Isaac esibirsi davanti a diecimila persone in Messico. L’ho conosciuto dopo lo spettacolo, abbiamo parlato e ho sentito una connessione. Gli ho detto: “Forse possiamo fare questo film insieme, ti scrivo come danzatore”.

Non tutti i ballerini sanno recitare. Lei ha subito creduto che Isaac potesse farlo?

“Sì, è il mio lavoro: capire chi può interpretare un ruolo. Jessica mi ha chiesto la stessa cosa: “Perché sei così sicuro che ce la farà?”. E io le ho risposto che spesso, come regista, sento quando una persona può farcela. E di solito ho ragione”.

Il film affronta il tema del colonialismo in modo intimo, attraverso una relazione amorosa. Perché ha scelto questa prospettiva?

“Perché questo argomento mi torna in mente da anni. La relazione tra Messico e Stati Uniti è intima, spesso affettuosa, ma può diventare improvvisamente violenta. E, naturalmente, è quasi sempre il Messico a stare “sotto”. Mi interessava raccontare questa dinamica attraverso una storia personale, senza fare un film “a tema politico”.

Isaac è un immigrato e un artista, e alla fine l’arte viene distrutta. C’è un senso simbolico in questo?

“Gli immigrati portano tantissimo — in economia, cultura, energia — ma raramente vengono riconosciuti. Ho voluto che il protagonista fosse un artista per rendere chiaro quanto contribuiamo, e quanto spesso la risposta sia distruzione o rifiuto”.

Lei si identifica con lui, in quanto regista messicano che lavora anche negli Stati Uniti?

“No, non direi. Ho girato film negli Stati Uniti e in Messico, ma sono sempre il produttore dei miei film. Non ho mai lavorato “per qualcun altro”. Finora ho sempre mantenuto la mia indipendenza, e spero di continuare così”.

Il film arriva in un’epoca segnata dal ritorno di Trump. Cambia qualcosa nella percezione della storia?

“Forse la rende più urgente. Il tema è sempre stato attuale, ma ora è sotto gli occhi di tutti, esasperato. Non ho fatto il film per commentare la politica, ma sicuramente entra in dialogo con quello che stiamo vivendo”.

Pensa sia possibile un mondo senza la colonizzazione culturale degli Stati Uniti?

“È una domanda enorme. Gli Stati Uniti esercitano un’enorme influenza, anche attraverso le piattaforme di streaming, che sono americane. Hanno una grande responsabilità culturale: se la usano con intelligenza, possono portare in luoghi interessanti, non nel senso opposto”.

E’ vero che in origine il protagonista doveva essere un uomo americano e una donna messicana?

“Sì, e sarebbe stato un film completamente diverso. Cambiare il genere dei personaggi cambia quasi tutto. È una domanda che mi faccio spesso: già in Chronic e Dopo Lucia avevo invertito i generi dei protagonisti. Mi interessa molto, perché cambia lo sguardo e il senso morale del racconto”.

Perché ha voluto lavorare di nuovo con Jessica Chastain, in un ruolo così diverso da Memory?

“Durante le riprese di Memory, ci stavamo divertendo molto. Un giorno a pranzo le ho detto: “Ho un’altra idea”, e lei ha risposto subito: “Scrivila, la facciamo”. È nata così, con naturalezza. Il balletto è arrivato dopo”.

Che cosa funziona così bene tra voi due?

“Abbiamo lo stesso film in testa. Dal primo colloquio fino al montaggio finale, siamo rimasti sintonizzati. Parliamo la stessa lingua cinematografica. Io le lascio grande libertà, lei rispetta la sceneggiatura. C’è un vero equilibrio, fatto di fiducia e rispetto reciproco”.

Le scene di intimità sono molto forti e a tratti crude. Come le avete costruite?

“Fin dall’inizio avevamo parlato di una relazione passionale e tossica. Le scene di sesso non servono a provocare, ma a far avanzare la storia. In ognuna succede qualcosa di preciso. Jessica e io abbiamo molta fiducia reciproca, anche grazie a Memory. Decidiamo insieme cosa mostrare, cosa implicare, cosa cambiare sul momento.

Nel film la fisicità racconta la relazione tanto quanto le parole.

“Sì. All’inizio c’è una scena tenera, poi una scena di passione e potere. È un percorso, una progressione. Le scene intime sono necessarie solo se hanno senso narrativo, altrimenti diventano inutili o imbarazzanti”.

Come ha diretto un attore debuttante come Isaac accanto a un’attrice esperta come Jessica Chastain?

“Isaac aveva già fatto una serie TV, ma soprattutto è un artista straordinario. È sicuro di sé, conosce il proprio corpo, sa usarlo. Jessica lo ha aiutato molto: dopo la prima scena mi ha detto “Andrà tutto bene”, aveva capito che aveva la forza giusta”.

Ha girato in ordine cronologico?

“Sì, assolutamente. Aiuta molto, perché fa crescere la relazione anche per gli attori”.

Nel film c’è anche un tema sulla filantropia e sul rapporto tra arte e potere economico. Come lo vive lei come regista?

“Io ho avuto fortuna: non ho mai dovuto “chiedere soldi ai ricchi”. Produco i miei film e quelli di altri. Non sono contro la filantropia, ma spesso è un modo superficiale per sentirsi “buoni”. Il vero problema del mondo è la disuguaglianza. Dovrebbero dare molto di più, non per generosità ma per giustizia”.

Alla fine del film, la protagonista distrugge l’arte. È un gesto di rabbia o di liberazione?

“Entrambi. È un gesto potente e struggente. Jessica ha amato subito questa idea: visivamente è fortissima, ma anche piena di senso”.

Perché il titolo Dream?

“Può essere letto in tanti modi. C’è il “sogno americano”, ma anche la falsità di quell’idea: un Paese costruito dagli immigrati che oggi li tratta da criminali. Ho pensato al titolo molto presto, e non l’ho più messo in discussione”.

Lei vive ancora in Messico?

“Sì, a Città del Messico. Mi piace vivere lì. Amo New York, meno Los Angeles, ma ci torno quando serve. Non ho intenzione di lasciare il Messico”.

Dream è il sogno del film o il sogno americano infranto?

“Entrambi. È il sogno che si trasforma in realtà, e poi di nuovo in illusione”.

Ci saranno nuovi progetti con Jessica Chastain?

“Almeno un paio. Lei scherza sempre dicendo che abbiamo un contratto da dieci film”.

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