Jafar Panahi: “Ora farò un film sulla guerra”

Roma – Jafar Panahi è stato premiato alla carriera da Giuseppe Tornatore e alla Festa di Roma ha portato il film Palma d’oro a Cannes, candidato per la Francia agli Oscar (in sala il 6 novembre con Lucky Red), A simple accident. Racconta di un uomo che rapisce l’individuo, identificato come suo torturatore, che va alla ricerca di altri ex detenuti politici per confermarne l’identità. Il regista iraniano racconta la reazione nel suo Paese: «Dopo Cannes io e la mia troupe siamo tornati in Iran. A Teheran ci hanno accolto giornalisti e famiglie dei prigionieri politici ma molti media cercavano di screditare il film e me. Ma non abbiamo avuto problemi con il governo».

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Parlando di politica, Jafar Panahi non crede nella possibilità di una pace a Gaza: «È importante continuare a sperare che un giorno questo circolo vizioso della violenza venga spezzato. È un pensiero idealista, ma è ciò che il film cerca di dire: dobbiamo fare il possibile perché la violenza non si perpetui. Ma sento che, per via delle decisioni prese, la pace non sarà immediata. Non credo che la tregua durerà a lungo». Spiega: «È difficile avere speranza. Gli israeliani durante la Seconda guerra mondiale hanno subìto un genocidio e si sperava che da un dolore così grande potesse nascere una lezione: che la violenza non dovesse continuare. Ma vediamo che la storia si ripete. Sembra che non abbiamo imparato, che non stiamo lottando per la pace ma continuiamo a pensare alla guerra. Il problema è che chi ha subìto violenza, una volta conquistato il potere, spesso la ripete. È un ciclo continuo: violenza che genera violenza, nella storia e nei popoli».

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Il prossimo film? «Tanti progetti, ma uno in particolare mi accompagna da anni: un film sulla guerra. Dal 2006 al 2011 non ho girato nulla perché lavoravo su questa idea. Ora è il momento giusto per affrontare il tema, con lo sguardo del mio cinema, un cinema sociale, profondamente umano, che cerca di capire cosa la guerra fa alle persone». Di che guerra si tratta? «All’epoca pensavo a quella tra Iran e Iraq, ora non penso a un luogo e tempo precisi. Mi interessa la guerra come condizione umana, come conflitto che attraversa popoli e generazioni. Quella tra due paesi, ma anche quella dentro di noi».

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