Andy Garcia: “Ringrazio l’America che mi ha accolto, ma mi sveglio ogni giorno cubano”

ROMA – Dopo un sorprendente cameo nel finale della prima stagione, Andy Garcia sarà al centro della seconda stagione della serie Landman, creata da Taylor Sheridan (Yellowstone) con Christian Wallace per Paramount+, ambientata in Texas, nel mondo dell’industria petrolifera contemporanea. Al centro c’è Tommy Norris (Billy Bob Thornton), un mediatore che negozia concessioni e affari per le compagnie di estrazione, immerso in un ambiente in cui il denaro facile convive con la distruzione ambientale e il peso delle scelte morali. Sheridan costruisce un racconto sui costi del progresso e sulle nuove forme di potere economico dell’America profonda.

Sul finire della stagione precedente, Andy Garcia è apparso nel ruolo del boss di cartello Galino, entrando nella storia proprio quando il protagonista rischia di essere eliminato. La sua presenza introduce una svolta: il mondo criminale scopre il valore strategico del petrolio e tenta di infiltrarsi in un’economia già segnata da corruzione e competizione estrema: l’energia può diventare il nuovo territorio del potere e in questa nuova stagione torna come personaggio fisso, diventando uno dei poli centrali della narrazione. Landman approfondisce il legame tra criminalità e impresa, trasformando Gallino in una presenza carismatica e pericolosa: un uomo d’affari che sa muoversi tra violenza e diplomazia, simbolo di un potere che non distingue più tra legale e illegale.

L’incontro con Andy Garcia è su zoom, l’attore chiede un caffè e poi risponde alle domande ben oltre il tempo concordato, elegante e pacato. Gli si chiede in che modo la serie rifletta le tensioni tra crescita, morale e responsabilità ambientale, risponde che non si considera un esperto del settore perché il suo personaggio “è in tutt’altro tipo di affari, come si scoprirà”, ma è convinto che la serie sia molto accurata, “riflette con realismo le preoccupazioni contemporanee”. Lo affascina la potenza visiva dei luoghi, “l’orizzonte del Texas, le trivelle che si alzano dritte verso il cielo, il fuoco, il calore: tutto questo ha una forza drammatica naturale. Poi – continua – c’è la cultura cowboy, le grandi scommesse economiche”. Smentisce l’idea stereotipata che si ha spesso del Texas, “non ci avevo mai passato molto tempo e avevo un’idea un po’ rigida, al contrario ho trovato una gentilezza e un calore straordinari. A Fort Worth, dove era il set, la cultura cowboy non è folclore ma un modo di vivere condiviso: nei vestiti, gesti, nel modo di accoglierti. È una tradizione che attraversa tutti, non solo i lavoratori dei ranch: anche in città, nei locali e negli alberghi, tutto ha quell’impronta. È qualcosa che appartiene a chi vive lì, senza distinzioni”.

Racconta in che modo Sheridan gli abbia proposto il ruolo, invitandolo a casa sua, proprio in Texas, “non c’era ancora una sceneggiatura, solo un’idea. Mi ha detto che voleva scrivere un ruolo per me, ho detto subito di sì. Sono un suo grande ammiratore: è un autore straordinario, sa scrivere dialoghi che hanno verità e ritmo. Mi sono fidato di lui e del gruppo di lavoro”. Definisce Billy Bob Thornton “un attore generoso e pieno di umanità”, la scena del loro incontro era già fortissima sulla carta: “Il regista ci ha lasciati liberi di provare, di spostarci, di improvvisare. Taylor Sheridan conosce bene il lavoro dell’attore e sa che a volte un piccolo scarto improvviso può far nascere un’emozione vera”.

Niente tempo per provare, “arrivi, ti spiegano i movimenti e si gira. Magari la sera prima ti incontri con il tuo compagno di scena e ripeti le battute per fissarle nella memoria, ma poi tutto accade sul momento. E qualche volta la memoria ti tradisce: guardi l’altro attore e capisci che si è dimenticato la battuta. Allora gliela suggerisci, o te la dicono da dietro la macchina da presa, e si riparte. Con l’età capita più spesso: la memoria – ammette – non è più quella di una volta, ma se resti dentro la scena, l’energia non si perde”. Quanto al tema del potere, e dei personaggi autoritari che spesso gli è capitato di interpretare, Garcia spiega che “il potere dev’essere già scritto nella storia: non puoi interpretare un re se nessuno si inchina quando entri. È il contesto che ti dà autorità. Il resto è controllo, silenzio, capacità di ascoltare. Un attore deve vivere con verità dentro le circostanze del personaggio. È un lavoro interiore, non di posa”.

Come accaduto a tanti, anche per lui a volte le scelte sono state dettate da ragioni economiche. “Al mattino mi sveglio come padre, non come attore. La mia priorità è mantenere la famiglia. A volte l’aspetto economico pesa più della qualità del progetto, ma questo non vuol dire che non si possa lavorare con serietà e cercare di migliorarlo. È un mestiere: non tutti i film possono essere Il Padrino. Altre volte, invece, ho rifiutato offerte molto alte per la natura del progetto, e ho fatto film quasi gratis, solo per amore della storia. Non c’è vergogna nel lavorare per denaro, finché mantieni la tua integrità”.

Ora è alle prese con il film che ha appena diretto e interpretato, Diamonds, un progetto scritto da lui e rimasto per anni nel cassetto, realizzato con un budget da quindici milioni. “Ci ho messo quindici anni a farlo. Nessuno voleva finanziarlo, alla fine l’ho fatto con fondi indipendenti, fuori dal sistema degli studi. L’ho girato a Los Angeles in venticinque giorni. È un noir contemporaneo: il protagonista è un investigatore che si comporta come un detective degli anni Quaranta, con auto d’epoca, ufficio e assistente. Nel corso del film si capisce perché. Ho avuto un cast straordinario: Vicky Krieps, Rosemarie DeWitt, Dustin Hoffman, Bill Murray, Brendan Fraser, Danny Huston, Robert Patrick. Tutti hanno lavorato per passione. Abbiamo chiuso le riprese il 23 ottobre e ora siamo in montaggio”.

E le origini cubane? “Mi sento cubano ogni giorno. Sono nato a L’Avana, sono arrivato negli Stati Uniti a cinque anni fuggendo dal regime di Castro. Ho avuto la fortuna di crescere in libertà, ma non ho mai perso la mia identità. È nelle mie ossa, nel mio modo di pensare, di parlare, di suonare la musica. Sono un uomo cubano che vive in America – conclude – con due culture che convivono in me. E mi sono svegliato questa mattina, come ogni mattina, da cubano”.

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