“Il principe della follia”, D’Ambrosi porta al cinema tutta la poesia dei “matti”

ROMA – Dario D’Ambrosi è un personaggio straordinario che in pochissimi conoscono. Oddio, forse “pochissimi” proprio no. In realtà milioni di persone in tutto il mondo l’hanno visto almeno una volta nella vita: era il centurione romano che frustava sadicamente Gesù Cristo in The Passion, il film di Mel Gibson che è stato uno dei più grandi successi di pubblico degli ultimi vent’anni. Ma naturalmente “rinchiuderlo” in quel ruolo sarebbe un grave errore. Perché D’Ambrosi, oltre che un attore, è un uomo di teatro, un regista (sia teatrale sia cinematografico), un “impresario e capocomico” (parole che la gente di teatro capisce e rispetta), un educatore e – oseremmo dire – un filosofo. Alla Festa di Roma è stato presentato il suo nuovo film Il principe della follia, ora in sala, e sarebbe bello se il pubblico avesse prima o poi l’occasione di incontrarlo. Non che il film sia una passeggiata di salute: è una sorta di “noir” che ogni tanto sconfina nell’horror e nel grottesco, e che mette in scena una famiglia che definire “disfunzionale” è quasi un complimento.

In una Jesi notturna, appunto da film noir, un tassista accompagna a casa un travestito. Poco dopo, fermandosi in un bar, vede in tv una televendita che lo lascia di stucco: un presentatore paralitico sta tentando di vendere non degli oggetti, ma la mamma e il papà… La donna è una ex ballerina, l’uomo è vestito e truccato da clown. E in scena c’è il travestito di cui sopra, che si esibisce in uno spogliarello. Da lì, si scende negli inferi. Non tutta la messinscena magari è impeccabile e il film cambia spesso registro, ma ciò che lo rende unico sta dietro le quinte: è il curriculum dello stesso D’Ambrosi, un uomo che queste cose le ha vissute in prima persona.

Da ragazzo era talmente affascinato dalla follia da farsi internare al famigerato Paolo Pini di Milano per studiare i “matti” da vicino; da adulto, poi, ha fondato il Teatro Patologico che è una delle più importanti realtà italiane del teatro d’avanguardia e sperimentale (con i suoi spettacoli D’Ambrosi è andato in tour in mezzo mondo, si è esibito all’Onu e ha persino “sfondato” le eleganti pareti del Festival di Sanremo). Il presentatore di cui sopra, che diventa il vero protagonista del film, è interpretato da Stefano Zazzera, un uomo che è stato colpito dal morbo di Parkinson a soli 40 anni e quindi incarna il disagio fisico e mentale con una verità che risulta difficilmente sostenibile. Del resto D’Ambrosi lavora sempre così. In fondo è l’artista più neorealista del teatro e del cinema italiano di oggi: i suoi interpreti sono sempre “presi dalla vita”, anche se per Il principe della follia ha coinvolto attori professionisti come Carla Chiarelli, Alessandro Haber e Andrea Roncato, sì, proprio lui, il comico bolognese, la metà del duo “Gigi & Andrea” in un ruolo sinceramente inaspettato.

Il principe della follia è solo l’ultimo capitolo di un percorso in cui D’Ambrosi lancia messaggi profondi sulla necessità di convivere con coloro che, con orribile linguaggio, chiamiamo a volte “disabili”, a volte “pazzi”, a volte addirittura “diversi”. In queste persone D’Ambrosi rintraccia sempre l’umanità e la creatività, a volte addirittura la poesia. E vale la pena citare una frase dalle sue note di regia: “Ricordatevi sempre quello che ripeto da anni: quando sta bene un ragazzo disabile, non sta bene solo un individuo, ma anche la mamma, il papà, i fratelli, i nonni, il condominio, il quartiere. E così milioni di persone possono stare meglio, ed è da qui che può nascere davvero una società migliore”.

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