Gary Oldman: “Jackson Lamb è l’altra faccia di James Bond. Dove lui brilla, io puzzo”

Gary Oldman ha costruito — in un mondo di spie dove gli eroi si muovono tra codici, fallimenti e disillusioni — un personaggio che riassume un secolo di cinema britannico. Il Jackson Lamb della serie Slow horses (su Apple Tv c’è la quinta stagione, ultimata la sesta, la settima è sul set) è l’antitesi del James Bond sexy e infallibile: un uomo stanco, sovrappeso, maleodorante, ma dotato di un’intelligenza feroce e di una lucidità morale che emerge attraverso il cinismo. Una figura che riassume il percorso artistico di Oldman, attore capace di passare dal teatro di Londra ai mostri hollywoodiani, da Sid Vicious a Churchill, da Dracula a George Smiley. E oggi, alla soglia dei settanta, interroga ancora la natura del potere, della verità e della menzogna, tra ironia e pacatezza.

Di Lamb, dice Oldman — che si racconta in un incontro stampa internazionale in vista dei Golden Globe — ama “la sua mente. È sempre due mosse avanti agli altri, e per chi lo osserva dall’esterno può sembrare un disastro umano, ma in realtà è l’uomo più intelligente della stanza. Ammiro la sua capacità di leggere le persone e le situazioni come un investigatore, come un detective. Ed è liberatorio incarnare qualcuno che non ha filtri. Nella vita reale siamo costretti a rispettare mille convenzioni sociali, a misurare ogni parola. Lui no. Dice quello che pensa, anche se è sgradevole. È un vecchio burbero, sarcastico, senza scrupoli, ma è un piacere da recitare. È come dare voce a un pensiero che normalmente censureresti”.

Lamb, dice, è un personaggio statico eppure pieno di segreti. “Con il passare delle stagioni scopriamo strati del suo passato: l’epoca di Berlino, la vita prima di Slough House, i frammenti della guerra fredda che si porta addosso come cicatrici. Ma non c’è un vero cambiamento. Il dado è tratto. Lamb è quello che è. Non lo vedremo mai redento o trasformato. Mick Herron, l’autore, ha persino detto che sa già come morirà, e lo tiene sospeso su di me come una condanna. Avrei preferito non saperlo, ma fa parte del gioco”.

La sceneggiatura per lui è un testo sacro: “La qualità di un attore dipende sempre dal testo e dalle persone con cui lavora. Herron ha creato un universo che ha radici profonde nella letteratura di spionaggio britannica: Le Carré, Greene, Deighton. Noi non rischiamo di cadere nel ridicolo perché c’è una struttura solida. Il rischio di una serie lunga è sempre quello di esaurire la materia, di inventare colpi di scena assurdi. Qui no. Ogni stagione ha un libro di riferimento, un’idea chiara, un tono. È quello che tiene viva Slow horses”.

Per Lamb, spiega l’attore, l’ironia è “una forma di autodifesa. Lamb la usa come un’arma. È parte della sua arte di spia. Ti permette di restare opaco, inaccessibile. Ma dietro quella scorza c’è empatia. Tiene ai suoi uomini, ma non lo mostra. Li spinge, li umilia, li provoca, ma lo fa per tenerli vivi. Sa che in questo mestiere la mediocrità ti uccide, o peggio, fa uccidere gli altri. È un capo che si finge crudele per essere giusto”.

Non c’è una sovrapposizione tra personaggio e interprete, in questo senso: “Posso essere sarcastico, sì, ma nella vita cerco sempre di essere generoso. Do alle persone il beneficio del dubbio. Non sono uno che esplode o che giudica subito. Con i miei figli, con gli attori più giovani, con gli studenti che incontro, cerco sempre di usare il miele, non l’aceto. Nella vita reale non sopporto chi umilia gli altri. Mi ferisce vedere qualcuno messo in imbarazzo. Ma poterlo interpretare senza conseguenze, nel gioco della finzione, è una libertà incredibile”.

Quanto Lamb incarna a modo suo lo spirito britannico? “È un personaggio intriso di quella cosa che chiamiamo understatement britannico. È un uomo che dissimula, che nasconde tutto dietro il sarcasmo. È un modo tipico di affrontare la realtà, di difendersi dalla vulnerabilità. Gli inglesi hanno questa capacità di dire la verità come se fosse una battuta. Lamb incarna proprio questo. È un ritratto dell’Inghilterra disillusa, quella che non crede più al mito dell’impero né al glamour dell’intelligence”.

Oldman sorride quando gli chiedono se sente un legame con la tradizione dei film di spie, e inevitabilmente con Bond. “Bond è un mito, un’icona, ma Lamb è l’altra faccia della medaglia. È l’ombra di Bond. Dove Bond brilla, Lamb puzza. Dove l’uno affascina, l’altro infastidisce. Eppure rappresentano la stessa cultura: due modi diversi di raccontare la stessa nazione. La Gran Bretagna è fatta di contraddizioni, di orgoglio e autodistruzione. L’intelligence inglese è sempre stata un riflesso di questo: uomini geniali e disperati, eroi e falliti allo stesso tempo. Io sono cresciuto con quei film, da La talpa in poi. Li ho amati perché mostravano la verità dietro il mito. E oggi, con Slow horses, possiamo continuare quel discorso”.

Sul fisico di Lamb, Oldman sorride: “È liberatorio poter interpretare un personaggio che non deve essere bello. Ho passato una vita a cambiare volto, a nascondermi dietro protesi, trucchi, accenti. Qui basta sporcarmi, infilarmi un cappotto e sono pronto. Mi serve mezz’ora di trucco, un po’ di unto sui capelli e il gioco è fatto. È una gioia. Dopo Hannibal o L’ora più buia, dove stavo cinque ore al trucco, questo è un paradiso. E poi è un corpo vero, pesante, vissuto. Non è estetico, è realistico. È il corpo della disillusione”.

Apre l’armadio dei ricordi: “Ho indossato abiti elaborati, parrucche, maschere. Ho interpretato mostri, geni, dittatori. Ma oggi mi interessa la verità, anche se passa attraverso la sporcizia. Lamb è reale. Quando alzo i piedi sulla scrivania e chiudo gli occhi, quello è lavoro, non pigrizia. Mi piace che lo spettatore debba capirlo da solo. È il contrario della spettacolarità”.

Il cast è ovviamente una famiglia: “Un gruppo meraviglioso. Quando un personaggio muore, lo sentiamo davvero. È la parte più dolorosa del lavoro, ma anche quella che ti fa capire quanto conti il legame umano. È raro, in televisione, trovare un gruppo così unito”.

Quanto si specchia in questo personaggio che gli ha regalato un successo straordinario? “Forse Lamb mi assomiglia più di quanto vorrei ammettere. È un uomo che ha visto troppo, che non si fida più di nulla, ma che continua a cercare un senso. Quando interpreto lui, è come se mi guardassi allo specchio. E in quello specchio vedo l’Inghilterra, vedo me stesso, vedo tutto ciò che non abbiamo mai smesso di essere”.

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