David Szalay: “Il mio Est dove dalle crisi nasce la letteratura”
LONDRA
Questa intervista stava per saltare. Quando lo incontriamo, poco lontano dalla londinese Regent’s Street, David Szalay ha mal di gola e raffreddore: «Non un gran tempismo, vero? Ma sono felice». Perché lo scrittore anglo-magiaro, nato 51 anni fa a Montreal da madre canadese e padre ungherese, infanzia a Beirut, laurea a Oxford, anni tra Londra, Bruxelles, in Ungheria e infine Vienna, dove vive con moglie e il terzo figlio di pochi mesi, lo scorso lunedì sera ha vinto il prestigioso Premio Booker. Ovvero il massimo riconoscimento per la letteratura in lingua inglese, con un premio di oltre 50mila sterline.
[[(gele.Finegil.StandardArticle2014v1) Premio Booker, vince l’ungherese-britannico David Szalay con il romanzo “Nella carne”]]
Szalay, volto alla Modigliani e occhi glaciali, ha trionfato grazie al suo spietato romanzo Nella carne (edito in Italia da Adelphi, come tutti i suoi libri). Un martellante e implacabile Bildungsroman che ha per protagonista il telegrafico István, 15enne delle periferie ungheresi che si trasferisce in Inghilterra, in un ottovolante di felicità e disperazione. L’irlandese Roddy Doyle, presidente di giuria, l’ha definita «un’opera mai letta prima: una meditazione su classe, potere, intimità, migrazione e mascolinità».
Szalay, ora la conoscono e lodano tutti. Sente già la pressione?
«Sto iniziando ad abituarmi. Ammetto che l’annuncio di lunedì sera è stato il momento più surreale e bizzarro della mia vita. Anche perché non mi pare che il Booker abbia avuto un effetto positivo sulle carriere dei precedenti vincitori…».
Beh, talvolta no.
«Alcuni dopo averlo ricevuto non hanno pubblicato per anni, per altri è stato lo zenit o comunque non hanno mai più scritto come prima. Vedremo se sarò l’eccezione, anche perché sono già in dirittura d’arrivo per il mio prossimo romanzo».
Peraltro il bellissimo “Nella carne” nasce proprio da un fallimento, ovvero un precedente romanzo che ha cestinato dopo 100mila battute, no?
«Esatto. Non era un granché, l’avevo iniziato subito dopo essere arrivato in finale al premio Booker nel 2016 con Tutto quello che è un uomo: cosa ottima per le vendite ma mi aveva paralizzato l’ispirazione. Allora ho riprovato con qualcosa di nuovo, e così è nato Nella carne».
La fama non deve piacere a un eremita come lei.
«Difatti, non vedo l’ora di tornare a Vienna e sparire di nuovo. Negli ultimi dieci anni, ho sempre diviso la mia vita tra i molti mesi in cui svanisco completamente per scrivere e altri in cui sono più sociale e viaggio».
Quale fase preferisce?
«Entrambe. Ma certo la mia vita è quando scrivo. Mi sveglio sempre presto la mattina e non tocco il telefono per molte ore».
Eppure, lei è un apolide della letteratura.
«Sì, e ciò ha avuto un impatto profondo sulla mia scrittura. Ho anche una casa in Slovenia, dove passo molto tempo».
Ma se dovesse sceglierne uno, a quale Paese si sente più di appartenere?
«Il Regno Unito, anche perché qui sono cresciuto, mi sono laureato e soprattutto l’inglese è l’unica lingua che parlo bene. Ma ormai non vivo qui da molto tempo ed è tutto più complicato…».
Però da anni lei si divide tra Mitteleuropa ed est, probabilmente la frontiera del mondo nuovo: la belligerante Russia alle porte, il dominio di leader populisti come Viktor Orbán, ma anche progresso, economie in salute e un paradossale senso di ottimismo.
«È così. Difatti, non avrei mai concepito un romanzo come Nella carne se non avessi vissuto a Pécs, in Ungheria, dove mi trasferii dopo una vacanza perché la vita costava molto meno. È una fetta di Europa estremamente affascinante perché oggi in continuo cambiamento: talvolta stimolante, spesso minaccioso. La gente si sta arricchendo come in Occidente, ma nel frattempo crescono gli autoritarismi e il nazionalismo cristiano. Insomma, l’Ungheria e altri Paesi guardano avanti e indietro, allo stesso tempo. C’è un fermento storico unico».
Forse non è un caso che anche il premio Nobel per la Letteratura di quest’anno sia stato vinto da un ungherese, László Krasznahorkai?
«Premesso che, quando hanno premiato Krasznahorkai, credevo che non avrei mai vinto il Booker… comunque sì, non è un caso. Nell’ultimo decennio anche il cinema ungherese ha prosperato, ricordandomi un’altra èra, quella del cinema americano degli Anni Settanta, con Coppola, Scorsese, Altman. Anche quei capolavori nacquero da una enorme crisi politica, economica e di sfiducia negli Stati Uniti. Anche oggi, in Ungheria e in altri Paesi dell’Europa Orientale si intrecciano questi contrasti molto preoccupanti, ma allo stesso tempo incredibilmente fertili. Se l’Ungheria fosse più felice a livello politico, sarebbe meno artistica, meno creativa. Mi piacciono le zone grigie dell’esistenza».
Come la “Fattoria degli animali” di George Orwell, il primo romanzo che lesse da bambino?
«Quel libro mi fece imbestialire. Fu il primo senza un lieto fine, con le cattive azioni che restano impunite. E poi quella scandalosa ipocrisia dei maiali mi fece orrore. Ma certo, se Orwell non avesse scritto quel capolavoro in modo così meraviglioso, oggi non ricorderei nemmeno di averlo letto».
Il libro
Nella carne di David Szalay (Adelphi, trad. A. Rusconi, pagg. 330, euro 20). Il premio Booker 2025 David Szalay sarà il 29 novembre a Terni (Umbrialibri) con Francesco Pacifico, il 30 novembre a Castiglion Fiorentino, il 1 dicembre a Roma (Feltrinelli Largo Argentina) con Sandro Veronesi e il 2 dicembre a Cosenza con Marco Vigevani.
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