Lo scrittore alpinista Cédric Sapin-Defour: “Vi racconto il mio amore per il cane Ubac”
PARIGI. Come si può immaginare che un testo così personale, intimo e viscerale, abbia toccato così tante persone?». Il primo a domandarselo è il suo autore, Cédric Sapin-Defour, 49 anni, «mezzo viaggiatore e mezzo professore di sport» come recita la sua biografia, e ora scrittore del bestseller Il suo odore dopo la pioggia (Salani) diventato Oltralpe un fenomeno editoriale, con oltre 140mila copie vendute. Le pagine d’amore sono dedicate a un bovaro del bernese, Ubac, che nel dialetto savoiardo significa il lato delle montagne meno esposto al sole. La prefazione è affidata a Jean-Paul Dubois, vincitore del Premio Goncourt 2019, uno dei tanti lettori che ha adorato il libro. «Un testo ricco e magico» commenta Dubois.
Ubac è morto nel 2016. Perché ha aspettato tanto per scrivere questa storia?
«Non era scontato, la nostra relazione poteva rimanere un segreto tra me e Ubac. Sapevo che, se avessi provato subito dopo la sua morte, avrei fatto un testo cupo mentre invece volevo qualcosa di luminoso. Così ho aspettato, come facciamo tutti quando perdiamo un essere caro. Ho attraversato le varie fasi: la rabbia, la tristezza, e poi un bel mattino mi sono ritrovato a pensare a Ubac con un sorriso, immerso in una felice malinconia. Quando questo sentimento è diventato dominante, ho capito che era il momento di iniziare a scrivere».
Si può leggere come un romanzo d’amore?
«Quando il cuore batte forte perché c’è qualcuno, e quando si prosciuga perché non c’è più, di che sentimento si tratta? Non so davvero come chiamarlo, se non amore. Non ho provato a cercare sul dizionario una parola che potesse piacere a chi pensa che la relazione con un animale sia tutto fuorché amore. Ci sono stati momenti dolorosi nella scrittura, ho scavato nella mia intimità. E forse per questo è un testo universale. Molti lettori mi hanno detto: “La tua storia è la mia”. È un libro che parla dei legami che si creano, e alla fine il fatto che nel mio caso sia con un animale diventa quasi un dettaglio».
Nel raccontare le vostre passeggiate, i momenti di complicità, spazia verso considerazioni più filosofiche.
«Da lettore mi piace quando si cambia prospettiva, allontanando lo sguardo in modo che elementi che possono sembrare insignificanti, banali, aprano una riflessione. La nostra relazione si svolgeva essenzialmente all’aria aperta. C’era una forma di equilibrio, di orizzontalità nel rapporto. Osservavo molto Ubac. Mi sono interrogato sulla presunta superiorità degli esseri umani rispetto alle altre specie, e sulle ragioni per cui, a poco a poco, abbiamo abbandonato alcuni dei nostri sensi come l’olfatto, il tatto. Ho provato a mettermi al livello del tartufo di Ubac, e forse questo aggiunge qualcosa di speciale alla nostra storia».
C’è una sorta di tabù nel vivere il lutto di un animale domestico. Ci vergogniamo di soffrire così tanto per la scomparsa di un cane, di un gatto. È stato complicato parlarne?
«È vero, tendiamo a sussurrarlo, a nasconderlo. Sappiamo che può essere visto come qualcosa di ridicolo, osceno. Non sopporto questa tendenza a classificare le ragioni per amare o soffrire, a creare una gerarchia nelle relazioni sentimentali. Per il lutto animale mancano riti collettivi e codici sociali. E se qualcuno, come mi è successo, ti dà una pacca sulla spalla e dice “Quando ti prendi un altro cane?”, allora capisci l’indifferenza che ti circonda. Le persone che non comprendono l’amore che si può provare per gli animali ti guardano come se fossi incapace di aprirti agli altri. Penso invece sia esattamente il contrario. Riuscire a prestare attenzione a un essere diverso da noi, ci apre alla comprensione di tutti i modi di amare».
Nel descrivere il suo rapporto con Ubac non cade mai nell’antropomorfismo, né in forme di misantropia.
«Sono felice che lo dica. Durante la scrittura del libro avevo appuntato due parole: antropomorfismo e misantropia. Erano le due trappole a cui volevo sfuggire. Amare il mio cane e avere un rapporto molto forte con lui non mi ha mai fatto sentire escluso dal mondo umano. E al tempo stesso, trovo molto sprezzante l’approccio antropomorfista, cioè considerare gli animali come una semplice estensione degli esseri umani. Al contrario, hanno una loro specificità, una loro unicità. Ed è questo che rende affascinante la relazione».
Come ha reagito al successo del libro?
«Ovviamente non me lo aspettavo. Mi piace che il successo sia stato determinato dai librai e dal passaparola. Ed è bello che sia il libro, ovvero Ubac, a essere al centro del successo, e non l’autore. Alcuni lettori hanno recepito questo testo come una licenza per parlare del loro rapporto con un animale, come uno stimolo a esprimere questo amore. E quindi smettere, come dicevamo prima, di sussurrarlo, nasconderlo, o confidarlo solo tra gli adepti della cappella canina».
È forse anche il segno che ci interroghiamo di più sulla nostra relazione alla Natura?
«Cominciamo a interrogarci sul nostro posto in quella che potremmo definire la comunità di creature viventi e sulla minaccia che rappresentiamo. In origine, non esisteva una parola per definire la Natura. Ci sentivamo parte di un tutto. Poi siamo entrati in una prospettiva antropo-centrica che, forse, adesso stiamo in parte riconsiderando. Non sono però sicuro che questo movimento si traduca già in azioni».
La foto di Ubac in copertina è stata una sua idea?
«Il titolo sono le prime parole che ho scritto, ed è stato deciso subito. Sulla copertina abbiamo discusso molto con l’editore. C’erano anche considerazioni commerciali, non volevamo allontanare potenziali lettori. Alla fine, quando ci siamo convinti a mettere una foto, era evidente che doveva essere Ubac. Mi emoziono ancora quando entro in una libreria e, vedendolo in vetrina, mi domando per un attimo cosa ci faccia lì. Ricordo esattamente quando è stata scattata la foto e cosa stava guardando».
Sta scrivendo un nuovo libro?
«Lentamente. Ho un forte bisogno di scrittura, quasi ogni giorno. A poco a poco, pezzi dei miei taccuini cominciano intrecciarsi tra di loro. E s’intravede una storia. Il problema è che non ho immaginazione. Non sono in grado di pensare a una fiction. Posso solo scrivere di ciò che ho vissuto in modo carnale e organico. E negli ultimi anni, viaggiando con mia moglie in montagna, ci sono successe delle “cose”. Uso questa parola deliberatamente. Cose che forse meriterebbero un po’ di riflessione e che sono l’occasione di rimettere in discussione il nostro posto nel mondo e questa maledetta vita che a volte trascuriamo ma a cui ci aggrappiamo come mosche sugli scogli».
Il libro
Il suo odore dopo la pioggia di Cédric Sapin-Defour (Salani, traduzione di Francesco Bruno, pagg.256, euro 16)
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