Abraham Verghese: “La letteratura è la medicina migliore”

Dopo il successo de Il patto dell’acqua, lo scrittore-medico Abraham Verghese propone il romanzo precedente, ora tradotto in italiano e pubblicato da Neri Pozza.

L’autore di origini indiane, cresciuto in Etiopia dov’è ambientata parte del libro, si conferma come un grande narratore contemporaneo capace di ampie pennellate storiche e geografiche e di un’intensa tenerezza per i suoi personaggi. Questa volta la trama ci fa navigare da Madras fino all’Addis Abeba di Hailé Selassié in un ipnotico intreccio di storie d’amore proibite e indagini sulla medicina con protagonisti due gemelli, il tutto farcito da interventi chirurgici dettagliati. Il romanzo riafferma, come fa in questa conversazione il professore di medicina a Stanford, come la letteratura insegni un’empatia utile anche alla scienza, promuovendo la guarigione tramite una comprensione più profonda.

Come mai per il personaggio del dottor Ghosh ne “La porta delle lacrime” l’ascolto emotivo del paziente è il più potente strumento diagnostico?

«C’è un dato statistico sorprendente: un medico americano interrompe il paziente dopo sette secondi di conversazione. Ma il rapporto con il paziente non è transazionale, è relazionale. Non solo è importante ascoltare la storia del paziente, ma anche del suo corpo. Quando la narrazione dei sintomi finisce, bisogna leggere il corpo per capire cosa dice di chi è la persona. Oggi, quest’aspetto è fortemente a rischio. Siamo zeppi di dati “del” paziente, ma non “sul” paziente. Troppo spesso la nostra attenzione si concentra su raggi x, risultati del laboratorio, biopsia. Dovremmo riportarla “sul” paziente. Bisogna ricollegare i dati al punto dolente, va localizzato sul corpo invece che nell’astratto. Non so se mi spiego…».

Perfettamente, penso ad alcuni medici della mutua in Italia, con dieci persone in sala d’attesa, che parlano scrivendo al computer, guardando le e-mail dei malati, rispondendo alle telefonate dei pazienti. Non è colpa loro, fanno acrobazie in un sistema che disumanizza la diagnosi.

«Il sistema è mal congegnato. La digitalizzazione dei dati medici è uno sviluppo straordinario dall’era delle introvabili scartoffie. Ma non è al servizio del contatto visivo e dell’interazione umana. Finalmente, oggi, grazie all’intelligenza artificiale che applichiamo qui all’università di Stanford, si può avere una conversazione normale con il paziente, senza prendere appunti, senza distrarsi, mentre l’IA documenta e diagnostica cos’è rilevante e cosa non lo è».

Quello che ancora non è programmabile nell’IA è l’empatia. Quant’è importante per lei, come medico e come romanziere?

«È centrale. Quando qualcuno è malato, non viene a presentarti fatti scientifici, viene in stato di stress. E va rassicurato. In qualche modo, la complessità dei mezzi moderni ci ha fatto perdere di vista quest’aspetto».

Qual è il suo segreto di come rendere i personaggi così vivi rapidamente?

«C’è un detto nella scrittura: il carattere del personaggio è determinato dalle decisioni che prende sotto pressione. È vero anche nella vita. Se inserisci un personaggio in una situazione di alta tensione, può arrivare il momento in cui sembra ti stia dicendo che non farebbe mai ciò che avevi in mente di fargli fare perché ha altri progetti. Se lo lasci fare, vuol dire che sei nei suoi panni, cosa importantissima anche in medicina. Per questo agli studenti insegno l’importanza della letteratura. Puoi studiare gli abusi infantili, ma per capirli visceralmente devi leggere un libro come La bastarda della Carolina di Dorothy Allison. Ti batte il cuore, ti ribolle il sangue e lo stomaco. Puoi studiare la fine della vita nei testi medici. Ma se vuoi capire la sensazione leggi La morte di Ivan Ilic di Lev Tolstoj e saprai quanto ti senti isolato quando la vita sta per finire».

A proposito di letteratura, un medico deve giudicare un paziente per trovare una cura, mentre un autore è meglio che non giudichi i personaggi. Come gestisce questa conflittualità?

«In realtà cerchiamo di non giudicare i pazienti. Dobbiamo curare gli esseri umani in tutte le loro varianti. Il medico deve controllare anche il proprio battito. Se un paziente ti fa infuriare devi calmarti. Il medico canadese William Osler diceva: “Non è importante quale malattia ha questo paziente, ma quale paziente ha questa malattia”».

Lei ricorda spesso la differenza tra guarire e curare…

«Nella medicina occidentale ci concentriamo molto sul curare dimenticando l’importanza di guarire il trauma della malattia. Immaginate di tornare a casa e scoprire che vi hanno rubato i soldi e computer. Avrete uno stress percepibile per il furto ed uno emotivo per la violazione della sacralità della casa. Se la polizia arresta il ladro e vi riporta la refurtiva sarete curati. Ma non guariti dal trauma. Se vi fratturate il radio della mano diagnosi e cura sono semplici, ma una parte si chiede: perché io? Perché adesso? Perché la mano destra? La medicina occidentale è ottima a curare la parte fisica, ma ha quasi ignorato la parte spirituale».

Perché invece di riconoscere quante vite sono state salvate dalla razionalità, la pandemia ha rinfocolato dei dubbi nei confronti della scienza?

«Abbiamo commesso l’errore di credere che se avessimo risolto il puzzle scientifico tutti avrebbero fatto quanto indicato. All’inizio c’erano così tante incognite e raccomandazioni diverse. Qui in America abbiamo perso terreno perché a volte il governo ha contrastato gli scienziati. Penso che i nostri leader dovrebbero leggere La Peste di Camus. Quanto accaduto con il Covid era già lì, gli stessi dubbiosi, gli stessi approfittatori, quelli che volevano aiutare, quelli che sono fuggiti. Di nuovo, ci vuole più letteratura».

Alcuni hanno visto i medici come eroi, altri come i “cattivi”. Come riportare all’antico rispetto per il medico?

«Domanda difficile. Il medico italiano Fabrizio Benedetti ha usato l’espressione “placebo senza il placebo” dimostrando che il tono di voce, il luogo dove incontri il paziente, come ti presenti, nel mio caso con i capelli grigi, il grembiule bianco e la cravatta, contribuiscono alla guarigione. Nella medicina occidentale dobbiamo prestare più attenzione non solo a ciò che viene somministrato ma anche a “come” viene somministrato».

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