Enrique Vila-Matas: “L’Europa resta unita grazie alla letteratura”
La letteratura è come un messaggio nella bottiglia, dice, con uno sguardo che è insieme ironico e malinconico. È diventato nel tempo un (iperletterario) scrittore di culto, e non è scontato in un’epoca che, come lui stesso fa notare, mostra un’ignoranza «sempre più scandalosa» rispetto alla storia della letteratura. D’altra parte Enrique Vila-Matas, il cui nome di tanto in tanto circola per il Nobel, si nutre e nutre i suoi inclassificabili romanzi di richiami, evocazioni, impalpabili parentele artistiche. «Risonanze», direbbe lui. E insiste nel nuovo romanzo appena uscito in Spagna, Canon de cámara oscura (Seix Barral): un personaggio votato a costruire un canone letterario impossibile e soprattutto inattuale. Forse è un essere umano, forse invece è un androide. L’autore mette le mani avanti: la fantascienza non è più un genere letterario, perché viviamo nella fantascienza.
C’è chi ha definito il nuovo libro il “negativo” del precedente, Montevideo (Feltrinelli); a ogni modo è evidente la continuità poetica: raccontare la vita attraverso la letteratura e viceversa, costruire i propri libri sulla passione per i libri altrui. In Montevideo il punto di partenza era una misteriosa novella di Julio Cortázar; e anche lì Vila-Matas convocava una notevole quantità di colleghi, lontani o prossimi, da Sterne a Baudelaire, da Julien Gracq al nostro Antonio Tabucchi, ricordato con affetto e gratitudine a inizio marzo nel convegno internazionale dedicato alla sua opera dall’Università di Barcellona e dall’Istituto italiano di cultura.
Nel suo intervento, intenso e segnato da una certa nostalgia, Vila-Matas ha confessato la sua ammirazione per la «leggerezza poetica» tabucchiana, e di essersi sentito talvolta la sua ombra. «Ammiravo in lui l’immaginazione nonché la capacità di indagare la realtà per poi arrivare a una realtà parallela, più profonda, quella realtà che a volte accompagna quella visibile».
Eravate amici?
«Eravamo amici, sì. All’inizio sono stato affascinato da Donna di Porto Pim, il suo “Moby Dick in miniatura”. E nel mio recente romanzo Montevideo rievoco i grandi momenti vissuti insieme e l’influenza che la lettura dei suoi primi libri ha avuto sul mio lavoro. Leggendolo, infatti, ho avuto la sensazione di entrare in contatto con “voci portate da qualcosa, impossibile dire cosa”, ma indubbiamente convocate nella mia scrittura per cercare di aumentare, allargare, moltiplicare le coordinate della nostra ambigua realtà».
Tabucchi era un maestro nel trasformare la vita in letteratura. Lei fa lo stesso, ma crede che nel mondo di oggi sia ancora così chiaro cosa sia “la letteratura”?
«C’è un’ignoranza sempre più scandalosa della storia della letteratura mondiale. Per questo, ultimamente, mi imbatto solo in nuovi romanzi che si limitano a parlare dell’esperienza personale, rinunciando ad aumentare il proprio “io” e ad ampliare la realtà. Io leggo la vita, la mia vita, in chiave letteraria. Insieme al mio amore per Paula de Parma, non ho trovato un modo migliore della scrittura per dare un senso all’esistenza».
In effetti si assiste a un esubero di testimonianze, memorie, racconti a cuore aperto di traumi vissuti. Ma lei dice che anche la Bibbia è autofiction. Quindi tutto è autofiction?
«Quello che voglio dire è che esiste solo il termine “fiction”, poiché espelle il termine autofiction, che in qualche modo è scontato. Propongo comunque il pieno ripristino della finzione, in modo tale che gli eventi narrati, anche se non sono accaduti, così come quelli non narrati ma accaduti, siano la parte più emozionante degli scritti autobiografici. Perché, naturalmente, anche tutto ciò che si pensa, tutto ciò che si immagina, anche ciò che non c’è stato (ma che avrebbe potuto esserci) fa parte della storia della nostra vita».
Di Tabucchi si è detto che è uno scrittore europeo. Che cosa significa per lei questo aggettivo? Ha senso, esiste una dimensione europea della letteratura?
«Mi vedo come uno scrittore in comunicazione con la storia della letteratura mondiale, ma senza alcuna pretesa, perché non perdo mai di vista il significato che Borges ha dato alla letteratura: come opera collettiva e anonima. O non ci sarà alla fine dei tempi solo ciò che è stato scritto a nome di tutti?».
Che cos’è oggi per lei l’Europa?
«Un luogo dove resiste, seppur in minoranza, la grande letteratura, per me l’unica disciplina indispensabile per comprendere la complessità che stiamo affrontando in questo momento».
Ma le sembra ancora una dimensione politica positiva? Come vive questo momento di rinnovato bellicismo?
«Sì, lo è ancora, più che mai. Ma resta da vedere se i suoi leader saranno all’altezza del compito. Vedo il punto inquietante, naturalmente, nello spirito guerrafondaio indesiderato eppure rinnovato. Continuo a pensare alla solitudine di Gorbaciov alla fine della sua vita e alla profondità, alla bellezza delle nebbie estreme, delle tempeste della grande Russia che ha incarnato così bene. Quando gli chiesero (una domanda di Werner Herzog) cosa avrebbe voluto leggere sulla sua lapide, rispose: “Ci abbiamo provato”. E cos’è quel che abbiamo provato a fare? Beh, qualcosa di abbastanza ragionevole: che la Russia fosse un alleato più naturale per l’Occidente rispetto ad altre potenze e si unisse al progetto di una casa comune europea. Ci si è provato, ma con scarso successo. E l’ombra di quel fallimento incombe ancora oggi su di noi».
Come si difende l’ispirazione di fronte alle drammatiche turbolenze del mondo?
«Il mio ammirato Bobi Bazlen diceva che non si tratta di combattere gli imbecilli fino in fondo, perché ci sono imbecilli in tutti gli ambienti, ma di ascoltare quello che dicono e capirli per poi creare un mondo in cui gli imbecilli non entrino».
Un buon uso dell’ironia può essere una soluzione, o almeno un anticorpo?
«Ho sempre detto che l’ironia è un potente strumento di disinnesco della realtà, forse perché è anche la più alta forma di sincerità».
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