Fernando Elena. Ai corpi estratti dalle cave diedero un numero: a mio padre assegnarono il 99
Io sono Vittoria Elena, figlia di un caduto delle Fosse Ardeatine. Ho 82 anni, mio padre si chiamava Fernando e quando fu preso e portato in via Tasso era un ragazzo di 22 anni, era nato il 23 giugno del 1919 e io avevo due anni e mezzo. Sono cresciuta senza mio padre, ma anche senza mia madre, morta anche lei in età giovane.
E comunque dal 24 marzo, giorno dell’eccidio, fino al luglio del ’44 noi di lui non avevamo avuto più notizie. Fu il primo presidente dell’Anfim, con sede all’epoca in via Nazionale, a cominciare a scoprire l’orrore delle Fosse Ardeatine. C’erano dei contadini che raccontavano che a fine marzo avevano visto passare vicino ai loro campi tanti camion militari che andavano veloci… poi da quelle cave cominciarono a tirare fuori i cadaveri, o comunque quello che restava dei corpi di quei disgraziati e a ognuno, aspettando che fosse identificato, veniva dato un numero. Mio padre ebbe il numero 99.
L’identificazione delle vittime durò mesi e mesi, mia nonna ogni due giorni andava alle Fosse Ardeatine per assistere all’orrore del rinvenimento dei cadaveri. Si era appena formato il “comitato dei 320” per fare luce sulla strage, trovare le persone sparite e dare sepoltura alle vittime (che in realtà poi furono 335 ndr), subito dopo la Liberazione dai nazisti… Spesso veniva accompagnata da mia zia, la sorella di papà. Ma in famiglia non avevano perso le speranze che papà fosse da qualche altra parte, vivo. A via Tasso risultava che era stato portato via da “deportato”, e nonno e nonna speravano che fosse stato portato da prigioniero in qualche campo di concentramento, a fare i lavori forzati. Ma un giorno di novembre un brandello di vestito che spuntava dalla calce fece perdere ogni speranza.
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C’erano pezzi di un paio di pantaloni bianchi e di una camicia a quadretti che mia nonna riconobbe subito, perché ogni settimana portava al figlio in prigione il cambio degli abiti. Nonna sapeva quali erano gli indumenti che gli aveva portato. E solo da queste poche cose è stato riconosciuto, perché del suo corpo non era rimasto quasi niente… erano passati mesi, l’estate calda, le carni si erano imputridite, c’era la calce, c’erano state le esplosioni fatte dai tedeschi e dappertutto calcinacci e terra caduta sui corpi… le prime persone che entrarono nelle Fosse Ardeatine, che scoprirono l’eccidio parlarono di un odore nauseabondo.
Era un inferno. Dal luglio del ’44 a novembre mia nonna andava avanti e indietro sull’Ardeatina o al Ministero in via Nazionale, in quelle caverne c’era un grande tavolo con sopra brandelli di stoffe e altri resti… allora non c’erano certo le tecnologie moderne, l’esame del Dna… poi fu lei ad avviare le pratiche del riconoscimento… Le fu consegnata una cassetta con pochi effetti personali, pezzi di pantalone e di una camicia, qualche bigliettino… No, mio nonno non ci volle andare mai, ha vissuto tutta la vita col senso di colpa di aver fatto rientrare il figlio a Roma per portarlo a morire.
Un giorno mentre ero in visita alle Fosse Ardeatine ho visto due giovani studenti fare una scritta sul libro delle firme con la svastica. Ero furiosa, li ho fermati tutti e due e gli ho spiegato alcune cose: «Se voi siete liberi e potete andare per strada a dire quello che vi pare, o scrivere queste idiozie sui muri è grazie a queste vittime che si sono sacrificate per tutti noi. E anche a noi che abbiamo vissuto senza i nostri genitori». Il giorno dopo la preside del liceo romano frequentato da quei due ragazzi mi inviò una lettera di scuse che ancora conservo.
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