“M” ultimo atto, fine ingloriosa di un dittatore nel nuovo libro di Antonio Scurati

Dal 25 luglio 1943 al 25 aprile 1945, poco meno di due anni. In quel pugno di mesi muoiono l’Italia del ventennio e il suo leader, nasce quella della democrazia. A quel periodo è dedicato l’ultimo volume del romanzo saga di Antonio Scurati M giustamente titolato La fine e il principio. 285 pagine di narrazione storica (narrative non fiction); un altro centinaio dedicate alle morti di alcuni coprotagonisti e complici, infine una vita: quella di Liliana Segre.

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Una lettura che prende alla gola, suscita sentimenti forti, ogni capitolo apre uno squarcio sulla conclusione dell’avventura cominciata, marzo 1919, nella milanese piazza Sansepolcro e chiusa sempre a Milano e poi nelle strade verso la Valtellina e la Svizzera. Ecco una prima osservazione: l’ottica del narratore parte da questa grande città industriosa semidistrutta dai bombardamenti alleati, attraversata da bande di assassini e torturatori spietati. Il fascismo, nato nelle violenze squadristiche del primo dopoguerra, agonizza negli assassinii di questi irregolari che mascherano sotto una qualche uniforme il loro sadismo.

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La concitazione degli eventi è, a tratti, travolgente. Il Duce sbarca a Ponza dalla corvetta C40 della Regia Marina il 28 luglio 1943. Nella notte del Gran Consiglio, tra il 25 e il 26, il fascismo è caduto, il condottiero messo in minoranza dai suoi gerarchi (compreso suo genero) va dal re certo del reincarico; invece, il sovrano lo fa arrestare dai carabinieri. Quando sbarca a Ponza non trova nemmeno una branda sulla quale distendersi. Sulla carta disponeva di migliaia di uomini pronti a dare la vita per lui. Nessuno si è mosso: «una civiltà che collassa senza fare rumore si accartoccia su di sé con un gemito sordo».

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Da quel momento, seguiamo la straziante odissea di un uomo che sa d’essere finito non solo politicamente e che tuttavia cerca di tenere in vita il comportamento e i riti dei passati vent’anni, ora rendendosi conto ora no, che ormai si tratta solo di una caricatura patetica. Confesso che nel corso della lettura sono stato preso più volte da un senso di angoscia. Conoscevo ovviamente i fatti come tutti. Conoscevo le date e l’epilogo. Eppure, seguire la successione degli eventi nella prosa spesso altamente suggestiva dell’autore, mi ha riportato più volte all’aria di quei mesi come raramente m’era capitato di provare. Questo è accaduto anche se, ripeto, l’ottica del narratore è concentrata soprattutto su Milano. I fatti accaduti a Roma, anche i più gravi, la razzia del 16 ottobre 1943 al ghetto, le fosse Ardeatine il 24 marzo 1944, l’arrivo degli americani il 4 giugno ’44, sono riassunti in poche righe. Ma è Lui il centro della narrazione perché lo sterminato romanzo M è la sua vita, le sue imprese, la fine miseranda.

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C’è una scena terribile tra le tante scene terribili, la visita del Duce alla sede della Legione Ettore Muti in via Rovello. Gli mostrano le varie stanze: armeria, infermeria, magazzini, uffici, mensa per i legionari e refettorio popolare. «Omettono solo la stanza delle torture». La cito perché quegli stessi locali ospitarono nel dopoguerra la prima sede del Piccolo Teatro e Paolo Grassi me li mostrò un giorno illustrandomi in quale stato lui e Giorgio Strehler li avevano trovati, con i muri delle ex celle ancora striati di sangue.

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Di tragica intensità anche le pagine dedicate alle ultime convulse trattative. Mussolini cerca con crescente disperazione una via d’uscita, il cardinale Schuster si fa mediatore, parla con i rappresentanti degli americani e della Resistenza. Alle 15.30 del 25 aprile 1945 incontra Mussolini, se lo trova davanti nel salotto d’udienza della curia ambrosiana: «legge nel volto totalmente disfatto il crisma di un uomo quasi inebetito dalla immane sventura». Nulla è più possibile, quel destino che tante volte il Duce ha evocato, sentito bussare alle porte, che ha gridato nei comizi dal balcone di piazza Venezia, ora sembra essergli accanto con inquietante prossimità. Si sposta, o meglio lo spostano, da una località all’altra, si cerca una soluzione che tenga insieme la sua vita e ciò che resta della sua dignità: la Valtellina, la Svizzera, l’obiettivo è soprattutto sfuggire alla giustizia partigiana fatta in nome di quel popolo italiano da lui trascinato nella vergogna e nella rovina. Ha preparato una borsa gonfia di dossier che intende esibire davanti a un tribunale americano per dimostrare la sua innocenza, vuole distinguersi dall’alleato che s’era scelto, il carnefice di Berlino. Invece, la giustizia popolare lo raggiungerà.

Scurati non ci dà la scena della fucilazione, Mussolini e la sua amante Claretta, fino all’ultimo compagna del suo Ben: «La morte — scrive — è forse l’unica grande scena della sua vita su cui non c’è certezza. La pietà è possibile, forse perfino dovuta, anche per chi non ne ha quasi mai avuta». C’è invece tutto il resto, ciò che segue alla sventagliata di mitra che toglie loro la vita, il 28 aprile 1945 a Giulino di Mezzegra. Mussolini era sbarcato a Ponza alla vigilia del suo sessantesimo compleanno. Sono passati nemmeno due anni da quel momento ma è come se ne fossero passati dieci o venti, l’uomo muore logorato dall’ansia, dai patimenti, forse dalla vergogna di non aver saputo scegliere quella fine eroica di cui tante volte aveva parlato: se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi. Era solo retorica, oratoria per infiammare le masse con la sua consumata abilità di agitatore. Quando era davvero giunto il momento di metterle in pratica quelle parole s’era camuffato sotto il pastrano di un sergente della Luftwaffe, un elmetto della Wehrmacht calato fin sugli occhi, rintanato nell’angolo di un camion, il quinto di una colonna, fingendosi assonnato dopo una sbronza. «Eccolo qui», scrive l’autore, «alla fine della strada, considerare l’ipotesi del finale più vergognoso, rinnegare la propria identità, fingersi altro da sé stesso».

L’ordine del comando partigiano è di far passare i tedeschi, individuare e far scendere gli italiani. Chi ispeziona quel camion è Giuseppe Negri, detto Peppino, nome di battaglia Zocolin. Scorge in un angolo quel fagotto che russa debolmente, solleva l’elmetto, capisce, va a chiamare il vicecomandante di brigata. Seguirà la tragedia fino allo scempio di piazzale Loreto, lo stesso luogo nel quale il 10 agosto di un anno prima, 15 antifascisti erano stati ammazzati dagli uomini della Muti ridotti, leggiamo, a «un ammasso di cadaveri scempiati in pose scomposte, contorti, convulsi, sbranati». Se davvero esiste la legge del contrappasso, quella ne fu un’applicazione selvaggia.

Il libro

M. La fine e il principio di Antonio Scurati (Bompiani, pagg. 416, euro 24)

Antonio Scurati presenta “M. La fine e il principio”: l’11 aprile (ore 18) a Roma con Corrado Augias al Teatro Manzoni; il 13 aprile (ore 17.30) a “Pensavo Peccioli”, kermesse a cura di Luca Sofri; il 24 aprile (ore 20.30) a Milano, Piccolo Teatro, con il reading teatrale “M. La fine e il principio”, adattamento e drammaturgia Lorenzo Pavolini, a cura di Davide Gasparro con Luca Marinelli, musiche dal vivo Rodrigo D’Erasmo e Mario Conte; il 28 aprile (ore 17.30) a Venezia, auditorium Santa Margherita, con Stefano Ercolino.

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