Turski, il custode di Auschwitz che raccontava la Shoah ai ragazzi
Per Marian Turski — giornalista e storico polacco, presidente del Comitato internazionale di Auschwitz, scomparso a Varsavia il 18 febbraio all’età di 98 anni (a giugno ne avrebbe compiuti 99) — la Shoah è stata un evento che riguardava e riguarda tutta l’umanità. Un’umanità indivisibile, e non composta dalle sole le vittime, gli ebrei e i sinti e rom. E se si voleva che la memoria della catastrofe della civiltà servisse da monito, occorreva che fosse viva: nello spirito e nelle forme che assumeva. Ecco perché si rivolgeva alle generazioni nuove e a quelle ancora a venire.
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Turski fu deportato ad Auschwitz, da Lodz, nel 1944. Poi, costretto a una delle famigerate marce della morte, e passando per Buchenwald, finì a Theresienstadt, un lager da cui venne liberato dai soldati dell’esercito sovietico. Dopo la guerra diventò giornalista e storico in Polonia, e nel 1965, borsista negli Stati Uniti, partecipò alla marcia da Selma a Montgomery a fianco di Martin Luther King, perché i diritti o sono universali oppure non sono.
Poco più di tre settimane fa ha tenuto un discorso alle celebrazioni dell’ottantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz. Camminava appoggiato a due racchette, di quelle usate per il trekking, la schiena un po’ curva ma non troppo. Parlava lentamente nel suo bellissimo polacco, un polacco da maestro di comunicazione, ed è stato in piedi sul podio per diciotto minuti. Ha detto che da circa duemila anni la civiltà è accompagnata da quattro cavalieri dell’apocalisse: «Guerra, pestilenza, carestia e morte». Un’interpretazione la sua, da laico quale era. Ha parlato dell’odio e dell’antisemitismo sempre più diffusi e della paura che rischia di paralizzare la nostra capacità di reagire di fronte alle manifestazioni del male.
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Ma soprattutto ha voluto sottolineare il suo appartenere a una «manciata» di persone ancora in vita, che a loro volta sono una piccolissima minoranza dell’immenso gruppo dei deportati uccisi nei lager, di cui non sappiamo le sensazioni né i pensieri di fronte alla morte. E allora, occorre tornare ai documenti rimasti. Ha poi citato gli struggenti versi della poeta polacca Henryka Lazowert, morta all’età di trentatré anni a Treblinka: «Parto per un luogo molto lontano, verso una stazione ignota (…) non segnata su nessuna carta geografica». Un componimento che termina con le parole rivolte all’amico: «Sta’ bene, caro (…) Io non ci sono più». Ecco, la poesia, l’arte sono forme di trasfigurazione, piccoli miracoli laici e per questo capaci di trascendere il tempo e parlare all’umanità tutta.
Eppure, da storico e cronista (un grande cronista), Turski sapeva essere molto concreto. In un mondo dove la narrazione dell’ebraismo e soprattutto dell’ebraismo polacco era vista dalla prospettiva dello sterminio, lui ha voluto che nascesse invece un luogo, a Varsavia, che parla della vita e non della morte. Quel luogo è il museo dell’ebraismo Polin, nel cuore di quello che fu il ghetto e che racconta una storia che produsse pensiero, arte (anche arte figurativa, a dispetto dell’idea che quella religione vieta le immagini), letteratura, impegno politico e sociale: da protagonisti e non da vittime.
Era fiero di questa sua creatura inaugurata nel 2014 e che documenta come gli ebrei fossero parte della Polonia e non “ospiti” talvolta graditi, altre volte sgraditi. Spesso lo si vedeva, nell’edificio di Polin, accompagnare gruppi di visitatori polacchi e stranieri.
Autorità in materia dell’etica pubblica, coniò un “undicesimo comandamento”: «Non essere indifferente». L’aveva pronunciato, sempre ad Auschwitz, il 27 gennaio di cinque anni fa. Lo esplicitò così: «Non restare indifferente di fronte alle menzogne storiche (…) quando vedi che il passato viene usato per soddisfare le esigenze politiche del momento. Non essere indifferente quando una minoranza viene discriminata. L’essenza della democrazia è che la maggioranza governa, ma i diritti delle minoranze sono tutelati». E rivolse ai più giovani questo appello: «A mia figlia, mia nipote, i coetanei di mia figlia, i coetanei di mia nipote (…) Primo Levi usò una volta la seguente frase: “È accaduto, quindi può accadere ancora”».
Diceva Turski che «Auschwitz non è caduta dal cielo», ma fu l’esito di un processo storico e politico che cominciò con i discorsi dell’odio e pratiche di esclusione.
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