Altiforni in estinzione, così cambia la geografia dell’acciaio in Europa
MILANO – È come un paesaggio popolato da enormi animali in via di estinzione: quasi ogni mese in Europa c’è un altoforno che chiude, schiacciato tra le normative ambientali di Bruxelles e la concorrenza asiatica. Taranto, insomma, è tutt’altro che sola nel suo destino declinante.
A oggi, nell’Unione europea, spiega il database di Boston Consulting Group, ci sono 25 impianti a ciclo integrale: quelli in cui si parte dal minerale di ferro, si passa attraverso l’altoforno alimentato a carbone coke e si arriva all’acciaio. Solo dieci anni fa erano circa il doppio e, nello stesso periodo, la percentuale della produzione europea sull’acciaio mondiale è passata dal 10 al 7%.
Molto inquinanti – per ogni tonnellata di acciaio prodotto emettono in media circa 2 tonnellate di CO 2 , mentre con i forni elettrici ci si ferma a tre quintali – gli altiforni sono destinati a sparire dal panorama europeo entro il 2050, quando è fissato l’obiettivo di cancellare del tutto la Co 2 . Ma già da qui a cinque anni, con il calo delle quote gratuite concesse finora alla siderurgia dalle norme europee che tassano le emissioni nocive, il loro destino è segnato.
I siderurgici di casa nostra e dell’Ue contestano il Green deal europeo, che appesantisce di oneri i loro prodotti, e puntano il dito sulla concorrenza cinese, che le tasse sull’inquinamento non le paga: in effetti, mentre in Europa sono vecchi dinosauri morenti, in Cina gli impianti a ciclo integrale fanno la parte del leone. A settembre scorso i dati del Global energy monitor ne mostravano 235 sotto la bandiera di Pechino.
Se alla concorrenza sui prezzi e ai vincoli ambientali si aggiunge anche una domanda debole, come quella di un’industria metalmeccanica in difficoltà, il gioco è fatto: in Germania, il mese scorso, ThyssenKrupp ha chiuso il suo altoforno BF9 a Duisburg, anche se per ora parla di fermata temporanea; a luglio ArcelorMittal ha abbandonato la produzione di coke a Cracovia e fermato l’altoforno numero 3 di D?browa Górnicza. Sono solo alcuni degli esempi più recenti.
Il peso dell’acciaio scuote anche le certezze sui confini tra pubblico e privato e attraversa gli schieramenti politici. Colpisce vedere industriali, sindacati e opposizioni uniti nella richiesta che a farsi carico dell’Ilva sia – con una ricetta antica – lo Stato.
Ma in Francia, appena l’altro ieri, una proposta di legge de La France insoumise – sinistra radicale – perché lo Stato nazionalizzi al 100% gli impianti di ArcelorMittal in modo da evitare 600 licenziamenti su sette stabilimenti, tra cui l’altoforno di Dunkerque, è passata in commissione Finanze all’Assemblée nationale con la fondamentale astensione del Rassemblement National, ossia l’estrema destra. In Gran Bretagna, lo scorso aprile, il governo laburista di Keir Starmer ha decretato d’urgenza il sostanziale commissariamento della British Steel per timore che la proprietà cinese chiudesse l’impianto di Scunthorpe, l’unico che ancora produce acciaio a ciclo integrato nel Regno Unito. Lo stesso ruolo che ha Taranto in Italia.
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