Customer experience con l’AI? Sì, ma ci vuole anche il cuore
L’intelligenza artificiale è ovunque. E non poteva mancare nella customer experience (CX) -diventata ormai una disciplina che unisce marketing, vendite, assistenza e branding per farci sentire “clienti al centro”- l’AI promette meraviglie: risposte in tempo reale, personalizzazione spinta, costi ridotti e operatori più rapidi ma, come mostra il quinto CX Annual Insights Report di Verizon, c’è ancora una distanza tutta da colmare tra ciò che i brand pensano di offrire e ciò che i consumatori effettivamente percepiscono.
Siamo contenti? Dipende da chi risponde
Secondo lo studio, il 72% dei dirigenti aziendali dichiara che le metriche CX sono migliorate nell’ultimo biennio e il 52% attribuisce il merito proprio all’AI. Anche la fedeltà dei clienti -un KPI sempre più prezioso- ha visto un +60% ma basta spostare la lente sui consumatori per scoprire l’altra faccia della medaglia: solo il 60% si dice soddisfatto delle interazioni automatizzate, contro un ben più rassicurante 88% che apprezza il contatto umano.
Cosa disturba? La frustrazione principale, condivisa da clienti e aziende, è l’impossibilità di accedere a un operatore in carne e ossa quando serve: 47% dei clienti la cita come la principale fonte di irritazione e quasi la metà delle aziende lo riconosce come punto debole della propria strategia AI.
Il paradosso della personalizzazione
È un altro dei grandi equivoci: mentre il 71% delle aziende afferma di usare l’AI per personalizzare l’esperienza del cliente, solo il 26% dei consumatori ritiene che questa personalizzazione abbia migliorato la propria customer journey; il 30% sostiene addirittura che l’abbia peggiorata. Il motivo? La privacy: il 65% dei dirigenti lamenta vincoli normativi che limitano l’uso dei dati personali e il 54% dei clienti ha perso fiducia sulla capacità dei brand di gestirli in modo trasparente.
L’AI funziona davvero? Sì, ma se non ruba la scena
Alcune aziende, però, stanno imparando a usare l’AI non come sostituto dell’uomo, ma come alleato. Come Exelon, colosso americano dell’energia: durante la pandemia ha usato l’analisi predittiva per identificare le famiglie a rischio di morosità e offrire loro, in anticipo, aiuti mirati. Risultato? Una customer experience che ha coniugato tecnologia e umanità e clienti grati e più fedeli nel tempo. Oggi, Exelon continua a usare l’AI per semplificare l’accesso ai bonus energetici, anche per le famiglie a basso reddito.
Sempre Exelon ha anche introdotto la generative AI per facilitare il lavoro degli operatori: l’AI fornisce i dati utili in tempo reale e riassume le conversazioni, lasciando ai team umani la parte empatica e decisionale.
Dall’energia alla moda: dove l’AI cambia (bene) l’experience
Il caso DHL, in Germania, è emblematico: un voicebot AI gestisce oltre un milione di chiamate al mese, traduce in tempo reale le richieste e affianca gli operatori nella formazione. È stato battezzato “collega” e inserito in un programma che coinvolge i dipendenti in tutte le fasi di implementazione… perché l’accettazione passa anche da qui.
Nel Sud dell’India, la Kerala State Electricity Board ha lanciato un voicebot in lingua locale (Malayalam) per smistare i reclami legati ai blackout. Anche in questo caso, l’AI non è slegata dal contesto, infatti, il bot è addestrato a distinguere emergenze reali da semplici richieste di informazioni, ottimizzando tempi e risorse.
E nel mondo fashion? La nuova parola magica è agentic AI: sistemi capaci di “agire” in autonomia. LVMH e Diane von Furstenberg li stanno testando in due modi diversi: da un lato, in modalità visible intelligence, dove l’AI è “in vetrina” e si presenta al cliente come un personal stylist digitale, pronto a suggerire abbinamenti e look personalizzati. Dall’altro in modalità invisible intelligence, nascosta nel back-end: qui lavora dietro le quinte, analizzando dati, orchestrando l’esperienza e suggerendo al brand le mosse migliori per rendere l’interazione più fluida e coerente.
Verso un’AI che ascolta e impara
Comcast ha lanciato un sistema “Ask Me Anything” per i suoi agenti: durante la chiamata, gli operatori possono chiedere al modello IA suggerimenti o informazioni in tempo reale. I risultati? Una riduzione del 10% nei tempi medi di conversazione e un tasso di soddisfazione superiore all’85%.
Ma l’AI non è solo dietro le cuffie dei call center. Nel beauty, Sephora ha fatto scuola con il suo Virtual Artist sviluppato insieme a ModiFace: un’app di realtà aumentata che permette di “provare” migliaia di prodotti make-up sul proprio volto grazie al riconoscimento facciale. Davanti al cliente, l’esperienza è immersiva e personalizzata; dietro le quinte, l’IA analizza preferenze e comportamenti, affina raccomandazioni e ottimizza le offerte. Il risultato? Più tempo speso nell’app, più acquisti e meno resi. Una dimostrazione concreta di come l’intelligenza artificiale possa imparare dal cliente e allo stesso tempo educarlo a scelte più mirate, trasformando il customer journey in un dialogo bidirezionale.
Umanità aumentata
In sintesi, che si tratti di voicebot per la gestione dei reclami o di modelli predittivi che anticipano i bisogni, l’AI nella CX funziona quando è invisibile ma presente; quando non ci sostituisce ma ci alleggerisce; quando non decide al posto nostro, ma ci guida.
Come ricorda Stacy Sherman, fondatrice di Doing CX Right: “Trasparenza e comunicazione sono gli ingredienti segreti della fiducia. Le aziende che spiegano ai clienti come usano l’IAI avranno relazioni più durature”. E allora sì, che l’intelligenza può davvero dirsi “artificiale” ma la fiducia e l’empatia non lo saranno mai.
*direttore di Markup e Gdoweek
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