Dal volantino alla media company: il salto del retail
Chi ha traffico ha valore. Chi ha dati ha futuro. È con questa frase – provocatoria quanto realistica – che si è aperto l’ultimo Focus Group della Community Retail 5.0 di Teha Group, guidata da Benedetta Brioschi. Tema centrale: il retail media, uno dei fenomeni più dinamici (e meno compresi) della nuova comunicazione commerciale. Perché se è vero che banner e sponsorship ci seguono ovunque, dai social alla mail, è nei punti di vendita – fisici e digitali- che si gioca la sfida della rilevanza e della conversione. In Europa, il mercato del retail media ha superato i 12 miliardi di euro nel 2023 e viaggia verso i 25 entro il 2026. A livello globale, secondo GroupM, vale già il 18% dell’intera pubblicità digitale. In Italia, invece, ci si ferma al 7,8%, con un valore di circa 428 milioni. Poco, se si considera la maturità dell’e-commerce, la crescita dell’omnicanalità e l’enorme patrimonio di dati che i retailer custodiscono.
Ma l’Italia ha una particolarità: un tessuto commerciale frammentato, fatto di consorzi, franchising, modelli decentrati. Dove spesso i Crm sono locali, i sistemi non dialogano e ogni punto di vendita è un piccolo feudo. Qui il retail media non si può semplicemente “applicare”: va costruito. Con una governance condivisa, regole editoriali, e un modello di revenue chiaro e incentivante. “Il retail media -ha spiegato Benedetta Briosch- è una delle leve più interessanti per la monetizzazione e l’engagement, ma in Italia rischia di rimanere un’etichetta vuota se non si affrontano le barriere sistemiche: tecnologiche, culturali e organizzative”. Una visione condivisa anche da Andrea Magnaghi di Wpp, che ha messo in evidenza il gap tra Italia ed estero: “Siamo partiti al contrario: prima i formati, poi la strategia. All’estero il retail media è un ecosistema orchestrato, da noi spesso è ancora un esercizio spot”.
Eppure, proprio il retail specializzato italiano può fare da apripista: qui lo scontrino medio è più alto, il customer journey più articolato e il consumatore più esigente. La formula è chiara: più lunga è la relazione, maggiore è il valore del contatto e, quindi, più efficace (e misurabile) può essere la comunicazione; ma non si tratta solo di Cpm e conversion rate: il retail media è un cambio di mentalità. Non è un nuovo canale. È un nuovo modello. Un modello che ridefinisce le responsabilità aziendali: i team marketing e media non possono più operare a compartimenti stagni; serve una task force cross-funzionale che includa anche IT, legale e data management. Serve un linguaggio comune tra trade e branding. Serve, soprattutto, un mindset “da media company”, come suggerisce la ricerca Teha: ogni azienda -anche il retail- deve imparare a pensarsi come editore di contenuti, oltre che venditore di prodotti.
E i contenuti, appunto, sono l’altro grande snodo. Il retail media non funziona con messaggi generalisti, parla a un consumatore distratto, multitasking, che dedica pochi secondi alla decisione. In store, bastano cinque parole. Online, servono headline impattanti ma concrete: sconto, prova, urgenza dove i contenuti devono essere utili e attivabili, non autoreferenziali e devono adattarsi al contesto. Non basta ‘tradurli’ da una campagna tradizionale. Vanno riscritti da zero. I dati YouGov presentati da Elisa Pucci parlano chiaro: il termine “retail media” è ancora poco noto, ma coupon, programmi fedeltà, in-store radio e social commerce influenzano profondamente le decisioni di acquisto; soprattutto nella Gen Z, che passa sì tre ore al giorno sui social, ma acquista ancora molto in negozio.
Il tema, allora, non è solo di awareness, ma di orchestrazione: come portare i contenuti giusti nei momenti giusti, all’interno di un customer journey che oggi è frammentato ma potenzialmente potentissimo? La risposta è nei dati. O meglio: nella capacità di integrarli, attivarli e renderli insight utili. Oggi il problema non è la quantità di dati, ma la loro dispersione in silos aziendali e piattaforme non interconnesse. Ecco perché -come emerso più volte durante il dibattito- il retail media non può essere un esercizio estemporaneo ma richiede investimenti strutturali; richiede modelli organizzativi. E richiede -forse prima di tutto- un patto strategico tra insegna e industria. Perché la vera sfida è valorizzare il punto di vendita, fisico o digitale, non solo come canale distributivo ma come spazio editoriale, narrativo e relazionale. In fondo, ogni metro quadro può essere uno schermo. Ogni passaggio in corsia può essere un touchpoint. Ogni carta fedeltà può diventare un’identità attiva ma solo se si decide, finalmente, di fare sul serio.
*direttore di Markup e Gdoweek
Condividi questo contenuto: