Flat tax ai super-ricchi impatriati, ma solo se investono in Italia: alcuni dubbi
* fondatore e Managing Partner di Foglia & Partners
Secondo quanto sta emergendo, parte dell’attuale maggioranza di governo ha intenzione di intervenire ancora, ad un anno di distanza dal raddoppio dell’imposta sostitutiva, sul regime fiscale della flat tax per i nuovi residenti che trasferiscono la propria residenza fiscale in Italia, introducendo quale ulteriore condizione di accesso al regime l’effettuazione di un investimento minimo in Italia, al fine di creare, da un lato, un volano per l’economia reale tramite l’investimento in titoli di debito italiani o soggetti residenti in Italia (e.g., società, OICR, start-up e associazioni con determinate finalità) e, dall’altro, di maggiormente radicare i nuovi residenti nel Paese.
A fronte di tali dichiarati intenti, non ci si può esimere dallo svolgere alcune riflessioni.
Va in primis osservato che costringere i nuovi residenti ad effettuare ex ante investimenti finanziari per un determinato ammontare non ha una necessaria ricaduta sull’economia reale. Investire in soggetti italiani non per forza si traduce in un aumento di scambi di beni e servizi sul territorio, anzi nulla assicura che tali maggiori investimenti siano effettivamente destinati al mercato italiano, specialmente se in soggetti di grandi dimensioni con interessi in più paesi.
Di contro, va considerato come, in ogni caso, i nuovi residenti effettuano già significativi investimenti e spese sul territorio italiano. Si tratta di acquisti di immobili (spesso di pregio) e dei relativi servizi accessori (dalle ristrutturazioni al personale di servizio), di autoveicoli, di oggetti d’arte e design, e in generali di costi legati ad un elevato stile di vita, i quali sono migliori indici rivelatori di un reale ed effettivo contributo all’economia reale. Tali effetti, tuttavia, non sono normalmente censiti dai dati statistici annualmente rilasciati dal Ministero delle Finanze o dalla Corte dei Conti sul regime della flat tax. Eppure, il loro effetto fiscale, in termini di imposizione indiretta (IVA, registro e bollo soprattutto) è sicuramente significativo.
A questo, deve sommarsi l’effetto fiscale derivante dalle maggiori imposte sui redditi. Se si considera il solo reddito medio di fonte italiana dichiarato dai 1242 nuovi residenti nel 2023 (€70.048), questo è notevolmente maggiore del reddito medio complessivo registrato dai contribuenti italiani (€24.830). Dato al quale deve aggiungersi l’ulteriore introito derivante dall’imposta sostitutiva sui redditi esteri (nel 2023, di ben oltre €100 milioni).
Ma vi è di più, l’introduzione del requisito dell’investimento minimo non assicurerebbe neanche un maggior effettivo radicamento dei nuovi residenti nel territorio italiano. Non è l’effettuazione ex ante di determinati investimenti – la cui effettiva ricaduta sul sistema paese è tutta da dimostrare – ad assicurarne la connessione con l’Italia, ben potendo questi stabilire la residenza anagrafica, effettuare gli investimenti richiesti e, in realtà, vivere effettivamente in altre giurisdizioni, con scarsissimi ritorni in termini umani ed economici per il sistema paese.
L’effettivo radicamento sul territorio, capace di fare da vero volano per lo sviluppo umano ed economico del Paese, deve poter essere misurato guardando alle connessioni, in termini umani ed economici, che i nuovi residenti sono capaci di creare con il territorio. E, in proposito, i dati reddituali diffusi Ministero delle Finanze dimostrano proprio come molti nuovi residenti siano genuinamente radicati nel territorio: circa la metà dichiara, infatti, redditi di fonte italiana (€87 milioni nel 2023 e €75 milioni nel 2022) e, di questi, una percentuale molto importante (82% nel 2023 e 86% nel 2022) è costituita da redditi di lavoro dipendente. Si parla, quindi, di soggetti che effettivamente trasferiscono la residenza in Italia e che, in un caso su due, sono attivi e lavorano sul territorio italiano, contribuendo, con le loro spese quotidiane, all’economia reale, e, con il loro know how (spesse volte estremamente qualificato), allo sviluppo del Paese, nonché alla sostenibilità del sistema di welfare e di previdenza nazionale.
Se il problema è, quindi, assicurare un effettivo radicamento in Italia, forse sarebbe più corretto agire sul versante dei controlli, prevedendo specifici meccanismi di riscontro dell’effettivo trasferimento e stabilendo, per i casi di fittizio ricollocamento, la decadenza dai benefici del regime (con irripetibilità delle imposte sostitutive già versate) e l’invio, anche in ottica di contrasto a pratiche di concorrenza fiscale aggressiva, di una segnalazione allo Stato di ultima residenza fiscale e/o a quelli con i quali emergono maggiori connessioni. Parimenti, si potrebbe valutare il superamento, per i soli nuovi residenti, della mera iscrizione anagrafica quale requisito sufficiente per acquisire la residenza fiscale in Italia, in quanto l’attuale presunzione relativa di residenza offre, oggi, comfort a chi intenda rilocarsi in Italia al solo scopo di godere della flat tax, senza un reale radicamento.
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Quel che è certo è che l’introduzione di un requisito di investimento minimo, così come prospettato, rappresenterebbe – anche in ragione degli obblighi e delle caratteristiche degli investimenti qualificati che verranno effettivamente stabiliti – un fattore di sicuro raffreddamento degli entusiasmi di possibili nuovi aderenti, con buona pace degli obiettivi attrattivi ai quali mira in realtà il regime di favore.
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