In pensione a 64 anni miraggio per pochi. Si rinuncia a Tfr e parte dello stipendio

ROMA — Un miraggio per i cinquantenni. Una sfida per ventenni e trentenni. Andare in pensione un po’ prima, a 64 anni, diventa ancora più difficile. Il governo ha appena inserito in manovra una norma per cumulare pensione pubblica e privata. Ma poi ha alzato i requisiti di accesso e allungato da 20 a 30 gli anni di contribuzione.

E così i nati negli anni Settanta dovrebbero versare alla previdenza integrativa da un minimo di 209 euro al mese a un massimo di 1.129 euro, quasi l’intero stipendio, di qui in avanti, per poter agganciare quella finestra di uscita anticipata. Oppure aspettare l’età di vecchiaia: 67 anni con 20 di contributi, 71 anni con 5 di contributi. I Millennials invece possono giocarsi una possibilità, a patto di destinare tutto il Tfr ai fondi sin dalla prima assunzione e aggiungere anche qualcosa.

I valori soglia salgono ancora

Gli effetti della norma non saranno immediati: si vedranno dal 2035 in poi. Riguardano intanto solo le pensioni anticipate dei “contributivi puri”, quanti hanno iniziato a lavorare dopo la riforma Dini, dal primo gennaio 1996.

Fino all’anno scorso, in base alla legge Fornero, potevano uscire a 64 anni con 20 di contributi a patto che avessero maturato una pensione pari a 2,8 volte l’assegno sociale, circa 1.500 euro. La seconda manovra del governo Meloni ha portato quel requisito a 3 volte, pari a 1.600 euro. La terza manovra, appena approvata dalla Camera, lo fa salire ancora a 3,2 a partire dal 2030: siamo dunque a 1.710 euro.

Più si alza questo valore soglia, più difficile accedere al pensionamento anticipato che dunque viene fortemente scoraggiato. Anzi, diventa un affare da “ricchi”: lavoratori ben retribuiti, carriere continue e senza buchi. Solo le madri hanno uno sconto: 2,8 volte con un figlio e 2,6 volte con due o più figli.

In pensione a 64 anni con i fondi integrativi. Ma è stretta sui requisiti

L’emendamento della Lega

Nel suo emendamento, approvato qualche giorno fa, la Lega prova a mitigare la stretta consentendo di sommare la pensione pubblica erogata dall’Inps con la rendita dei fondi. Nel frattempo però allunga pure gli anni di contribuzione: da 20 a 25 anni dal prossimo anno, 30 anni dal 2030.

Già nella versione di ottobre della manovra si prevedeva il cumulo pubblico-privato per accedere alla pensione di vecchiaia (67 anni), sempre per i post-1996. La relazione tecnica ci dice che la platea interessata è molto piccola: 100 persone il prossimo anno e 600 a fine decennio. Tace su quanti sono quelli che useranno l’altro cumulo, quello per l’uscita a 64 anni.

I traguardi si spostano

Attenzione: nel 2030 l’età dell’uscita anticipata non sarà neppure più 64 anni perché cresce con l’aspettativa di vita. I nati nel 1970 uscirebbero nel 2035 a 65 anni. I nati nel 1974 si pensionerebbero nel 2040 a 66 anni. E così via. Anche il valore soglia verrà aggiornato all’inflazione e sarà più alto di 1.710 euro.

Insomma, traguardi che si spostano sempre più su. Mentre gli stipendi vanno sempre più giù. Tutto ruota attorno alle retribuzioni. È evidente che solo quelle basse hanno bisogno della stampella del “cumulo”. Le altre ovviamente no, perché riescono ad arrivare in autonomia alle soglie. Le simulazioni di smileconomy, società indipendente di consulenza previdenziale, aiutano a capire il meccanismo.

La Gen X tagliata fuori

L’impatto della norma leghista riguarda innanzitutto la Generazione X. Quella degli anni Settanta che si è ritrovata nel pieno di due riforme epocali delle pensioni (Dini e Fornero) piombando nel metodo contributivo (prendi quanto versi), più equo ma meno garantito rispetto al retributivo dei loro avi (prendi in base agli ultimi stipendi).

È la stessa generazione delle riforme del lavoro, a partire dalla Biagi, che hanno flessibilizzato i contratti. Portando però a carriere più intermittenti e stipendi più bassi. Ecco che con 1.250 euro netti di retribuzione per i nati degli anni Settanta che non hanno scelto di versare il Tfr ai fondi, l’uscita anticipata sarà praticamente impossibile a meno di spendere cifre che erodono in tutto o parte lo stipendio. Va solo un po’ meglio a chi guadagna 1.500 euro netti. Ma diciamo che per questa generazione il traguardo della pensione si allunga, a meno di improvvisi aumenti di stipendio.

Adesioni basse ai fondi

Spiega Andrea Carbone, economista e ideatore di smileconomy, che la nuova norma rischia di non essere particolarmente efficace per i redditi bassi che si vuole aiutare: «Basta guardare ai dati Covip sul 2023: gli iscritti che versano ai fondi sono solo il 29,7% dei dipendenti e il 13% degli autonomi, con un versamento medio, incluso il Tfr, di circa 225 euro al mese». Insomma, i lavoratori più fragili di oggi difficilmente ne trarranno beneficio. E poi troppa confusione: «In una materia già complessa, servirebbe una semplificazione delle regole. Altrimenti corriamo il rischio di aumentare le frustrazioni, con cittadini che non credono più né nella previdenza di base né in quella integrativa».

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