Le sfide della ristorazione: il nodo del valore aggiunto
* Direttore Generale di FIPE-Confcommercio
Nonostante il rinnovo del Contratto Nazionale della ristorazione, che ha portato un aumento a regime di 200 euro mensili, si continua a parlare di lavoro povero nel settore. La ristorazione occupa ogni anno oltre 1,1 milioni di lavoratori, di cui il 60% a tempo indeterminato. Il 51% è rappresentato da donne, mentre solo il 40% dei contratti è full time. Il 25% dei lavoratori proviene da Paesi stranieri, spesso con un livello di scolarizzazione medio-basso.
Il comparto è caratterizzato da una forte frammentazione: oltre 330.000 imprese, il doppio rispetto a Germania e Francia in rapporto alla popolazione. Una liberalizzazione incontrollata ha contribuito a questo scenario, aggravato dalla presenza di agriturismi, home restaurant, negozi alimentari e sagre, che operano spesso con regole diverse e concorrenza poco equilibrata.
Sul piano economico, le imprese con obbligo di bilancio hanno registrato nel 2023 un valore aggiunto pari al 35% della produzione e un utile lordo inferiore al 4%. Una marginalità che evidenzia un settore ad alta intensità di lavoro, in cui la quota di ricchezza destinata al capitale è residuale. Se si vuole incrementare il reddito da lavoro, occorre intervenire sulle caratteristiche strutturali, aumentando il valore aggiunto complessivo.
La forte competitività si riflette anche nei tassi di sopravvivenza: secondo Infocamere, il 50% delle nuove imprese di ristorazione fallisce entro cinque anni. Ancora più critica la situazione nella ristorazione in appalto – mense scolastiche e ospedaliere – dove il part time è diffuso e l’aggiudicazione al massimo ribasso compromette salari e qualità del servizio. In questo contesto, il cibo rischia di essere trattato come una commodity, anziché come un patrimonio da valorizzare.
Il quadro congiunturale non aiuta: tra il 2021 e il 2024 i costi delle materie prime alimentari e dell’energia sono cresciuti sensibilmente, mentre i prezzi al consumo sono saliti meno dell’inflazione (14,6% contro 15,4%).
Serve dunque una strategia di rilancio. Occorre superare le contrapposizioni ideologiche tra le parti sociali e promuovere proposte condivise, partendo dal presupposto che i salari non sono una variabile indipendente dal contesto. È inaccettabile che la produttività – misurata come valore aggiunto per ora lavorata – sia oggi inferiore dell’8% rispetto al 2013: così, la ricchezza da distribuire si riduce invece di crescere.
È prioritario riordinare l’accesso al mercato della somministrazione alimentare, eliminando sovrapposizioni normative e concorrenza sleale. Servono regole omogenee su tassazione, requisiti professionali e contrattazione. Attualmente, solo uno dei 32 contratti esistenti – quello sottoscritto dalla Federazione Pubblici Esercizi con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative – copre circa 800.000 addetti. Gli altri spesso configurano casi di dumping contrattuale.
Il punto è se il sistema è pronto per avviare un dibattito serio e costruttivo sul futuro di un settore che rappresenta non solo un asset economico strategico, ma anche un elemento identitario della cultura e dell’immagine dell’Italia nel mondo. L’alternativa è l’immobilismo, con il rischio concreto di passare da un “lavoro povero” a un “settore povero”, con gravi conseguenze per tutti gli attori coinvolti.
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