L’economia di guerra di Putin si è inceppata

MILANO – Può sembrare un paradosso, ma l’ultima cattiva notizia per l’economia russa rischia di portare la firma anche di Mosca. Oggi i maggiori paesi produttori di petrolio riuniti nell’Opec+ vareranno un nuovo aumento della produzione di greggio, anche superiore a quello deciso e ribadito negli ultimi mesi. Arabia

Saudita, Russia, Emirati Arabi, Kuwait, Oman, Iraq, Kazakistan e Algeria hanno infatti raggiunto, un’intesa di massima per aprire ulteriormente i rubinetti dell’estrazione di 548 mila barili al giorno a partire da agosto. Una decisione a sorpresa, quando la maggior parte degli osservatori si attendeva un aumento di 400 mila barili, in linea con gli incrementi decisi nei mesi precedenti.

Per i paesi del cartello è una mossa per riguadagnare quote di mercato: più offerta si traduce in prezzi più bassi tagliando fuori i paesi con costi di estrazione più alti. Un azzardo in un contesto internazionale in cui il rallentamento dell’economia mondiale lascia pensare ad un calo della domanda, con il rischio che l’eccesso di offerta spinga ulteriormente al ribasso i prezzi.

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Brutte se non pessime notizie per la Russia, la cui economia di guerra – spiega il Wall Street Journal –comincia a mostrare però le prime crepe. L’attività manifatturiera è in calo, l’inflazione è ancora sulla soglia della doppia cifra, i consumatori continuano e ridurre le spese e il bilancio statale è sempre più sotto pressione.

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La fine di un modello

“Il modello di crescita basato esclusivamente sulla spesa militare è fallito», ha dichiarato Janis Kluge, esperto di economia russa presso l’Istituto tedesco per gli Affari Internazionali e di Sicurezza, citato dal Wsj. “Le capacità del settore civile devono ridursi, liberando lavoratori affinché la macchina bellica possa continuare a crescere. Ma non è sostenibile”. Il ministro dell’Economia russo Maxim Reshetnikov ha avvertito invece il mese scorso che la Russia “è sull’orlo della recessione”, mentre il ministro delle Finanze Anton Siluanov ha definito la situazione una “tempesta perfetta”.

L’economia rallenta

Gli indicatori macroeconomici confermano questi segnali. Nel primo trimestre dell’anno il Pil russo è cresciuto dell’1,4% rispetto all’anno precedente, in calo del 4,5% rispetto quarto trimestre 2024. Il pmi manifatturiero, l’indice dei direttori degli acquisti delle aziende considerato il “termometro” più aggiornato sullo stato di salute delle imprese manifatturiere, a giugno ha registrato un preoccupante 47,5, il dato più basso da tre anni a questa parte e sotto la soglia dei 50 punti, che separa le fasi di contrazione da quelle di espansione dell’attività produttiva.

La guerra non paga più come prima

Il maxi investimento sulla guerra sembra quindi non pagare più come prima. La spesa militare oggi viaggia intorno al 6% del Pil, il doppio degli Stati Uniti e il più alto dai tempi dell’Unione Sovietica. Le spese per la difesa e la sicurezza – ricorda sempre il Wall Street Journal – rappresentano circa il 40% della spesa pubblica totale russa di quest’anno.

La corsa dei prezzi

Ma proprio l’impennata della spesa militare ha spinto l’inflazione al rialzo, costringendo la banca centrale a tenere alti i tassi per contenere la fiammata dei prezzi, a maggio scesi per la prima volta, dal 21 al 20%. Tassi più alti che ovviamente limitano le possibilità di credito per imprese e famiglie, a danno della crescita economia del Paese.

Campanelli di allarme registrati anche dalle principali banche del Paese che negli ultimi mesi hanno visto crescere la quota di Npl, cioè crediti deteriorati difficilmente esigibili, con VTB, il secondo maggior istituto di credito del Paese e controllato dallo Stato, ha registrato un tasso di crediti deteriorati nel segmento retail del 5% a maggio 2025, in aumento rispetto al 3,8% della fine del 2024. Numeri che non spaventano però la banca centrale russa, che si è affrettata a rassicurare che i rischi di insolvenza sono ampiamente coperti dal buffer di capitale delle banche.

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Il rischio del petrolio low cost

Ma la macchina da guerra russa, pur super sanzionata, si è alimentata negli anni grazie alla consistente vendita di petrolio, pur già venduto a sconto rispetto ai prezzi delle quotazioni internazionali. Ora la discesa dei prezzi “guidata” dal cartello dei produttori porterebbe aggiungere ulteriori elementi di incertezza. Un report recente della banca centrale finlandese mostra come Mosca ha fissato nelle proprie previsioni di budget un prezzo del petrolio a 70 dollari al barile. Se i prezzi scendessero ancora il disavanzo pubblico potrebbe crescere ulteriormente. Nel dettaglio, secondo lo studio, se il prezzo medio di esportazione del petrolio greggio russo fosse di 55 dollari al barile nel 2025 e di 54 dollari nel 2026, invece dei 70 e 60 dollari previsti rispettivamente dal quadro di bilancio, il PIl russo perderebbe un punto ciascun anno. Non poco per un economia già in frenata.

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