Lo sconto Irpef al ceto medio sarà “mini”. Più detrazioni per i redditi sopra i 50 mila

ROMA — Semmai dovesse esserci una possibilità, anche striminzita, di dare un segnale aggiuntivo sul taglio delle tasse allora bisognerà insistere sull’Irpef. E questa volta, ragiona Giorgia Meloni nelle ultime ore, è bene che il governo si ricordi di quel ceto medio che fino ad oggi ha messo da parte.

Il non detto è lo stop all’estensione della flat tax per le partite Iva che invoca Matteo Salvini. Ma il rigetto è sottaciuto, custodito in gran silenzio a Palazzo Chigi per evitare di rompere la “compattezza” sbandierata al vertice di venerdì, tra l’altro già sconfessata dal doppio comunicato stampa sull’Ucraina. La premier, raccontano fonti di governo, si è talmente convinta che bisogna guardare ai redditi Irpef sopra i 50 mila euro al punto da chiedere al ministero dell’Economia di costruire qualsiasi soluzione, anche “minima”. Qualcosa in più, è il titolo del compito affidato al Dipartimento delle Finanze che risponde al suo fedelissimo viceministro Maurizio Leo. Poco importa se il segnale alla fine sarà esiguo: tutto fa gioco quando il perimetro della manovra è quello dell’austerità e delle rinunce.

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Un’ipotesi è stata già vagliata dai tecnici di via XX settembre: via il tetto alle detrazioni proprio per i redditi che superano i 50 mila euro annui lordi. È il taglio da 260 euro che quest’anno colpisce gli sconti sulle spese per le quali è prevista una detraibilità del 19%. La decurtazione verrebbe quindi annullata, tutta o in parte, per il 2025. Al momento è la soluzione ritenuta più robusta, non di certo blindata. C’è una questione che si impone sulla volontà della presidente del Consiglio: i soldi. Al momento, quindi, la misura è priva di copertura. Potrà prendere quota solo “a determinate condizioni”, spiegano le stesse fonti.

Le condizioni sono due. La prima: la conferma del trend positivo delle entrate tributarie. L’enfasi posta sulla centralità dei dati delle autoliquidazioni delle partite Iva, attesi il 5 settembre, è legata a ragioni politiche: il peso di queste entrate è marginale rispetto alle altre. Il pathos è funzionale al governo per portare avanti la narrazione della responsabilità sui conti, ma l’essere appesi a questi dati è sinonimo delle difficoltà che sta riscontrando nel tirare su la Finanziaria.

La seconda condizione è l’esito del concordato preventivo biennale, il patto tra l’Agenzia delle entrate e le partite Iva che congela le tasse e i controlli per due anni. La scadenza è stata prorogata al 31 ottobre per cercare di racimolare quante più risorse possibili, ma il pasticcio sul gettito, prima stimato e poi rinnegato, marca il timore per l’entità dell’incasso. Anche per questo le altre ipotesi sul taglio dell’Irpef sono deboli. Esclusa la cancellazione dell’aliquota del 35%, dai costi insostenibili, è in valutazione il taglio di un punto percentuale, al 34%.

Le simulazioni hanno preso in considerazione anche la possibilità di estendere il secondo scaglione, oltre il quale scatta l’aliquota del 43%, da 50 a 60 mila euro. Ma il problema resta sempre lo stesso: le risorse. Ecco perché al Mef prevale la prudenza. La priorità è un’altra: la proroga di un anno del taglio del cuneo contributivo fino a 35 mila euro e della riduzione, da 4 a 3, delle aliquote Irpef. Se andasse a finire così, addio al ceto medio. Di nuovo.

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