L’oro cerca nuove vie lontano da New York e la Svizzera lo ripudia

MILANO – Nell’era della finanza dematerializzata rimane uno dei pochi concretissimi valori che viaggia fisicamente per il mondo. L’oro – tornato improvvisamente alla ribalta per la possibile intenzione degli Usa di tassarne le importazioni – resta non solo il bene rifugio per eccellenza, ma il metallo prezioso che sostiene economie e culture in ogni angolo della terra.

Quanto ce n’è, prima di tutto? Secondo i dati del World Gold Council, l’associazione degli operatori del settore, circolano nel mondo circa 208 mila tonnellate d’oro, mentre ogni anno vengono estratte dalle miniere circa 3 mila tonnellate aggiuntive. Lo stock di oro è impiegato per almeno la metà nel settore della gioielleria, dove i mercati principali sono la Cina e l’India, mentre un 20% circa è destinato agli investimenti, che siano monete o lingotti, poco meno di un altro 20% rappresenta – sempre in lingotti – le riserve delle banche centrali e il 10% abbondante che resta è per usi industriali, che vanno dalle protesi dentarie ai semiconduttori.

Proprio la dimensione fisica dell’oro, e i diversi standard con cui è “confezionato” sono al centro della diatriba fra Stati Uniti e Svizzera, il paese da cui – secondo i dati del governo – passa circa un terzo dell’oro lavorato a livello globale.

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Accade infatti che i due principali mercati del mondo per l’oro fisico abbiano unità di misura differenti. Sulla piazza di Londra, dove valgono gli standard dettati dalla London Bullion Market Association, i lingotti sono da 400 once, ossia circa 12,4 chili, in pratica dei grossi mattoni, che ai prezzi attuali valgono circa un milione e trecentosessantamila dollari l’uno.

Anche le banche centrali tendono a usare i lingotti da 400 once per le loro riserve auree, molte delle quali – compresa parte dell’oro di Bankitalia, che ha la terza riserva al mondo dopo Usa e Germania, con 2.452 tonnellate – sono custodite dalla Federal Reserve di New York.

Sul mercato americano, invece, gli standard per i lingotti sono due: da un chilo, blocchetti grandi quanto un telefonino, che sempre ai prezzi attuali valgono circa 110 mila dollari, e da 100 once, ossia poco più di tre chili e circa 350 mila dollari di valore. Nel passaggio dalla Gran Bretagna agli Usa – che è stato particolarmente intenso nei primi tre mesi di quest’anno, quando c’era qualche timore per l’arrivo di dazi anche sul metallo prezioso – o viceversa, l’oro deve essere così fuso e confezionato in lingotti adatti al mercato su cui arriverà.

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E proprio il grande afflusso di oro britannico da trasformare e poi spedire negli Usa ha portato le cinque fonderie elvetiche ad esportare una quantità record di lingotti, per un controvalore di oltre 39 miliardi di franchi svizzeri, solo nei primi sei mesi dell’anno, mentre nel primo semestre 2024 le esportazioni di oro verso gli Usa erano state di appena 1,7 miliardi di franchi.

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Il paradosso è che Berna sperava di poter convincere gli Usa che queste “false” esportazioni, visto che l’oro non è prodotto in Svizzera, ma solo fuso, dovessero essere scomputate dall’attivo commerciale di cui si lamenta Donald Trump. Il risultato, al momento, sembra essere assolutamente il contrario: non solo l’export d’oro non viene scomputato dal calcolo totale dei commerci, ma rischia di essere tassato anch’esso al 39%.

Ora, mentre si attendono i «chiarimenti» su eventuali dazi annunciati da Washington, la Svizzera vede il settore luccicare molto di meno, tanto che esponenti politici – dai Verdi alla destrorsa Unione democratica di centro, propongono che siano proprio le fonderie d’oro a pagare per i maxidazi che pesano sulla Confederazione.

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