Mercati, occhio ai rischi di un eccessivo ottimismo
Prima il rallentamento della crescita globale, poi la nuova ondata di dazi imposti dall’Amministrazione Trump, ora i dati sull’accelerazione dell’inflazione negli Usa, che a giugno si è attestata al 2,7% annuo, tre decimali in più rispetto a maggio. Scenari dirompenti, che fin qui non hanno fermato la corsa dei mercati azionari, tanto da far crescere i timori di sopravvalutazione.
Le tre fasi dell’era Trump
“Il commercio internazionale rimane il principale fattore di tensione, con le politiche protezionistiche statunitensi che continuano ad alimentare incertezza politica con un impatto stagflattivo non irrilevante, seppur ridimensionato, rispetto a quanto temuto all’indomani del Liberation Day”, commenta Andrea Delitala, head of euro multi asset di Pictet Asset Management. Il quale individua tre fasi dopo l’affermazione di Donald Trump alle presidenziali americane. Nella prima, la vittoria del tycoon ha amplificato la fiducia dei mercati nell’eccezionalismo americano, sul presupposto che gli Stati Uniti sarebbero diventati ancora più pro-business. Le previsioni di crescita sono salite oltre il potenziale e sopra il 2%; poi, nella seconda fase, iniziata con il Liberation day il 2 aprile scorso quando sono stati annunciati i dazi reciproci, il mercato ha vissuto un momento di panico e le previsioni per il 2025 hanno incorporato un impatto rilevante – in termini di minor crescita e più inflazione – conseguente alle decisioni della Casa Bianca. Da metà maggio, invece, si è entrati in una fase di normalizzazione che ha visto contemporaneamente l’azionario sovraperformare e l’obbligazionario riprendersi dalla correzione iniziale.
I rischi di surriscaldamento dei valori
Arrivati a questo punto, cosa aspettarsi? “È possibile che il mercato stia ignorando il rischio di un aggiustamento qualora una delle componenti (per esempio l’inflazione) mostrasse una dinamica inaspettata”, avverte Delitalia. “A nostro avviso le proiezioni di consenso per gli Stati Uniti – 1,5% crescita e 2,9% inflazione – sottostimano le pressioni inflazionistiche e sovrastimano il momentum economico”. Le politiche economiche implementate dalla Casa Bianca, con effetti spesso divergenti tra breve e medio periodo – ricorda l’esperto – portano in sé il rischio di surriscaldare l’inflazione e frenare la crescita. “A nostro avviso, il mercato è fin troppo rilassato: mentre le nostre previsioni sulla crescita sono abbastanza allineate con quelle di consenso, siamo più pessimisti sull’inflazione, che ci aspettiamo ben oltre il 3% anche nel 2026”.
L’importanza di monitorare l’inflazione
Ad oggi, secondo Pictet, l’aspetto più preoccupante riguarda la crescita dei prezzi: al di là degli impatti dei dazi, già incorporati nelle previsioni e tendenzialmente transitori, in questo momento il carovita negli Stati Uniti è alimentato dalla crescita dei prezzi nei servizi, fortemente legata alla dinamica salariale. “Le politiche restrittive varate da Trump sull’immigrazione hanno ridotto di oltre un milione gli immigrati presenti nella forza lavoro, mentre quella relativa ai lavoratori nativi è salita di due milioni; questo configura un successo rispetto alle promesse elettorali di Trump, ma potrebbe creare frizioni nel mercato del lavoro con conseguenze inflattive anche in presenza di un’attività economica meno dinamica”, aggiunge Delitalia.
La posizione della Fed
Nonostante le pressioni politiche per un allentamento monetario, il governatore della Fed Jerome Powell ha mantenuto una posizione prudente, confortato anche dalle ultime revisioni delle stime macroeconomiche: a giugno sono state riviste al rialzo le previsioni di inflazione per l’anno in corso – dal 2,7% al 3% – e al ribasso quelle sulla crescita, da 1,7% a 1,4%. È importante ricordare che il mandato della Fed, oltre alla stabilità dei prezzi, contempla anche il pieno impiego, ma non la crescita del Pil. Pertanto, anche in presenza di una crescita più bassa, se il mercato del lavoro continuerà a rimanere solido – la disoccupazione è oggi al 4,1% – la Fed non sarà tenuta a intervenire.
Preferenza per Europa e mercati emergenti
Alla luce di questo scenario composito, Pictet Am punta su un atteggiamento prudente verso sugli Usa, sia lato equity, che fixed income. “A livello strategico, le nostre preferenze sono orientate verso la duration europea rispetto a quella americana, principalmente per la minore volatilità e per motivi di valutazione. Inoltre, la svalutazione del dollaro ha fatto aumentare il costo di copertura (cost of hedging). Di conseguenza, investire in asset americani è oggi meno conveniente sia per il rischio cambio che per il costo stesso dell’hedging”, spiega Delitalia.
In conclusione, si profila un contesto dove prevale ancora una visione prudente, soprattutto per quanto riguarda la parte breve della curva e le asset class statunitensi, penalizzate da incertezza politica, valutazioni tirate e cambio meno favorevole. Al contrario, “l’Europa e gli emergenti sembrano oggi più interessanti, sia per ragioni relative di valutazione, sia per la possibilità di beneficiare di un dollaro meno forte e di una politica monetaria più espansiva”, conclude.
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